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Usa, Make America White Again: l’identità statunitense secondo Trump

Nella lunga e tormentata storia del riconoscimento di coloro che si possano chiamare “veramente americani” negli stessi Usa, Trump torna al passato e utilizza il criterio del colore della pelle. Con buona pace per la speranza di un’integrazione dei popoli, la cosiddetta “melting pot”, che al massimo ora diventa “ethnic stew” o “salad bowl”

Usa, Make America White Again: l’identità statunitense secondo Trump

Il conflitto tra Donald Trump e alcuni giudici federali di tribunali di grado inferiore alla Corte Suprema sull’effettivo potere del presidente di deportare in massa e in modo sommario gli immigrati irregolari nonché di sospendere lo jus soli per i figli dei clandestini e dei visitatori temporanei nati negli Stati Uniti ha riacceso un dibattito, mai completamente sopito, su quale sia la natura della società americana e su chi possa ritenersi uno/una statunitense.

Nazione di immigrati e melting pot

Due sono i principi che The Donald sta cercando di confutare con la sua politica di tolleranza zero contro le presenze illegittime di stranieri: la visione degli Stati Uniti come “una nazione di immigrati” – per citare il titolo di un celeberrimo pamphlet firmato, ma non scritto, nel 1958 dal non ancora presidente John Fitzgerald Kennedy – e l’idea che gli americani rappresentino il prodotto di un melting pot, letteralmente di un crogiuolo o di una pentola di fusione, una metafora che viene fatta generalmente risalire all’omonima piece teatrale messa in scena nel 1908 dal drammaturgo Israel Zangwill.

Da un lato, il concetto di “nazione”, inteso nell’accezione di comunità di appartenenza anziché di semplice terra di approdo, riflette l’intento di integrare i nuovi arrivati nella società americana e di coinvolgerli nelle sue decisioni e scelte, partendo dal conferimento di cittadinanza e diritto di voto, anziché limitarsi a offrire loro una semplice destinazione dove perseguire un proprio “sogno americano” di promozione sociale, miglioramento delle condizioni economiche e/o conquista della libertà politica e religiosa.

Dall’altro, la nozione di melting pot implica che l’essenza degli statunitensi sia la condivisione di un’identità nazionale alla cui elaborazione e trasformazione nel tempo sia consentito di contribuire anche agli immigrati. In questa prospettiva i paradigmi della nazione di immigrati e del melting pot costituiscono i fondamenti delle dinamiche di inclusione sviluppate nel tempo dagli Stati Uniti.

Gli equivoci del melting pot

Zangwill era un sionista pentito, che all’inizio del Novecento giunse a considerare gli Stati Uniti quale nuova “terra promessa” del popolo ebreo. La sua concezione del melting pot ipotizzava la possibilità di integrare tutti i nuovi arrivati e, pertanto, incoraggiava l’accettazione di qualsiasi immigrato, a prescindere dal Paese di origine.

Sul momento fu una interpretazione di grande successo, perché contribuiva a rassicurare un’opinione pubblica statunitense estremamente preoccupata dal problema di come assimilare quei circa tredici milioni di individui che, tra il 1901 e il 1915, stavano sbarcando nell’America del Nord e che non erano di ceppo anglo-sassone come il nucleo storico, ancora predominante, della nazione.

Nella visione di Zangwill, la gestazione dello statunitense era ancora in corso e il prodotto finale sarebbe stato arricchito dal contributo di tutti i popoli approdati nel Paese. Mancava, quindi, l’idea che gli immigrati dovessero conformarsi a un modello prestabilito, alla cui elaborazione non avevano concorso. Zangwill, però, insisteva anche sul fatto che negli Stati Uniti le nazionalità europee si dissolvevano.

Pertanto, ciò che connotava chi sceglieva l’America come nuova patria era l’abbandono dei pregiudizi e della cultura della terra di provenienza, per abbracciare i valori e l’identità del Paese di adozione.
I protagonisti del suo dramma, l’ebreo David e la cristiana Vera, immigrati dall’Impero zarista, si innamoravano e alla fine potevano vivere felicemente la loro relazione in America perché, sebbene lui fosse l’unico sopravvissuto di un pogrom in cui la sua famiglia era stata sterminata dal padre di lei, avevano entrambi metaforicamente lasciato in Russia il retaggio degli scontri cruenti tra le diverse fedi e avevano fatto proprio il principio della tolleranza religiosa vigente negli Stati Uniti.

Una enfatizzazione di quest’ultimo aspetto, che finiva per fraintendere il messaggio originario di Zangwill, portava a concludere che, più che come un crogiuolo nel quale anche gli americani erano una componente, il melting pot operava come una sorta di filtro che purificava chi sbarcava negli Stati Uniti, rendendolo adatto a vivere nella nuova patria.

In altre parole, a fondersi nel metaforico pentolone avrebbero dovuto essere solo gli stranieri, non gli statunitensi ai quali i nuovi arrivati erano chiamati a rendersi simili. Il colosso automobilistico Ford Motor Company volle dare una dimostrazione visiva di come il ribollire del melting pot non fosse altro che un meccanismo di americanizzazione, intesa come la necessità di conformarsi alle caratteristiche anglo-sassoni del Paese di adozione.

Come ha ricordato Ezekiel Kweku in un intervento sul New York Times lo scorso 3 luglio, alla vigilia della prima guerra mondiale, le cerimonie di consegna dei diplomi di conoscenza della lingua inglese, rilasciati dalla scuola aziendale della Ford agli operai nati all’estero in vista del conseguimento della cittadinanza statunitense, erano precedute da uno spettacolo durante il quale persone vestite con i costumi tradizionali e con in mano le bandiere delle rispettive nazioni di origine dei dipendenti dell’azienda passavano dietro la sagoma di un enorme pentolone per uscirne tutti indossando lo stesso modello d’abito da uomo d’affari e sventolando la bandiera a stelle e strisce.

Nel 1954 lo storico George R. Stewart si spinse a parlare di transmuting pot, per indicare una dinamica in cui gli immigrati introdotti nel crogiuolo di Zangwill non costituivano gli ingredienti di un nuovo statunitense, diverso da quello presente al momento del loro arrivo perché ancora privo del loro contributo, ma venivano appunto “trasmutati” in un tipo preesistente di americano.

L’anticipazione del melting pot

Non risultava molto più inclusivo neppure il precursore del paradigma ispirato a Zangwill per indicare il risultato dell’interazione tra immigrati e società statunitense. Nelle sue Letters from an American Farmer, pubblicate nel 1792, l’ex console francese a New York, J. Hector St. John de Crèvecoeur, sostenne che era “un americano colui che, gettandosi dietro alle spalle tutti i vecchi pregiudizi e le antiche usanze, ne riceve di nuovi dal nuovo tipo di vita che ha abbracciato, dal nuovo governo al quale obbedisce e dalla nuova posizione che occupa”.

Non tutti, però, potevano prendere parte a questo processo. L’individuo destinato a diventare uno statunitense, descritto da Crèvecoeur, non era un immigrato qualsiasi, bensì “un europeo o il discendente di un europeo”. Più precisamente, l’americano era “una mescolanza di inglesi, scozzesi, irlandesi, francesi, olandesi, tedeschi e svedesi”.

Colore della pelle e appartenenza agli Stati Uniti

L’indipendenza degli Stati Uniti era stata riconosciuta da meno di dieci anni, con la Pace d Parigi del 1783. Eppure Crèvecoeur aveva già compreso che la neonata Repubblica non era disposta ad accogliere chiunque. Del resto, istanze xenofobe per l’esclusione di stranieri indesiderati erano all’opera fin da prima dello scoppio della guerra d’Indipendenza.

Nelle sue Observations Concerning the Increase of Mankind, scritte nel 1751 e uscite a stampa nel 1755, Benjamin Franklin, uno dei futuri padri della patria (l’unico esponente politico ad aver firmato tutti e quattro i documenti fondativi degli Stati Uniti: la dichiarazione d’Indipendenza, il trattato di alleanza militare con la Francia, la Pace di Parigi e la Costituzione federale), si lamentò del fatto che la Pennsylvania, una colonia creata dall’inglese William Penn, era diventata la destinazione privilegiata dei tedeschi in America settentrionale e, tra il serio e il faceto, consigliò ai discendenti del suo fondatore di imparare in fretta il tedesco per non sentirsi stranieri in casa propria.

In un sussulto di razzismo per cercare di bloccare l’arrivo di immigrati dalla Germania, Franklin si spinse a sostenere che i tedeschi erano meno bianchi degli inglesi perché erano più scuri di carnagione. La sua affermazione anticipò il principale criterio iniziale di esclusione dalla nazione americana, quale comunità di individui, sebbene non dalla possibilità di entrare e restare negli Stati Uniti: il colore della pelle. Come aveva intuito, senza eccessivi sforzi, Crèvecoeur nel 1792, per essere considerati americani bisognava essere europei, in altre parole occorreva essere bianchi.

Non a caso, fino al 1868, non fu riconosciuta la cittadinanza statunitense alle persone di origine o di ascendenza africana, neppure a quelle giuridicamente libere nel periodo in cui la schiavitù rimase legale in alcuni Stati del Sud, cioè fino al termine della guerra civile nel 1865. La stessa sorte toccò ai nativi americani prima del 1924, salvo poche eccezioni ma a partire dal 1887, creando una situazione paradossale, per non scrivere grottesca, perché ovviamente costoro erano molto più americani degli immigrati europei e dei loro discendenti, nel senso che vivevano nel territorio degli Stati Uniti da un tempo maggiormente lungo. Per ragioni analoghe, agli immigrati asiatici fu impedito di conseguire la cittadinanza statunitense fino al 1952, con la principale eccezione rappresentata dai cinesi, anche se nel loro caso soltanto dal 1943.

Una lunga storia di xenofobia

Al pari della concezione ottimistica del melting pot di Zangwill, anche il principio della “nazione di immigrati” esce ridimensionato dalle istanze restrizioniste che hanno attraversato tutta la storia degli Stati Uniti. Accanto a Franklin, un altro padre della patria, Thomas Jefferson, il principale estensore della dichiarazione d’Indipendenza, vide nell’immigrazione più svantaggi che benefici e nelle sue Notes on the State of Virginia (1782) suggerì, ancorché invano, di sospenderla per un quarto di secolo, affinché i nuovi arrivati, provenienti da un’Europa contrassegnata da regimi monarchici, non inquinassero le istituzioni e la vita politica della nascente Repubblica americana.

Non ebbero maggiore successo, alla metà dell’Ottocento, gli sforzi per bloccare l’immigrazione cattolica in quella che restava una società ancora dominata dai protestanti di ceppo anglo-sassone. Tali tentativi furono effettuati in risposta all’ondata di quasi due milioni di irlandesi di etnia celtica che si riversarono negli Stati Uniti per scampare alla morte per inedia a causa della carestia delle patate, abbattutasi sull’Irlanda tra il 1845 e il 1852, ma che furono visti come potenziali agenti papisti, portatori di un progetto di asservimento dell’America alla volontà del pontefice romano.

Il primo provvedimento per impedire l’immigrazione di una popolazione sgradita in quanto ritenuta inassimilabile fu varato nel 1882, quando il Chinese Exclusion Act bloccò per dieci anni l’ingresso dei cinesi. Il divieto fu esteso per un altro decennio nel 1892 e a tempo indeterminato nel 1902. Nel 1907 il governo di Washington raggiunse un accordo con quello di Tokyo in base al quale il secondo si impegnò a non rilasciare il passaporto ai suoi cittadini intenzionati a trasferirsi negli Stati Uniti in cambio dell’impegno dell’amministrazione federale a impedire la segregazione degli studenti giapponesi nelle scuole della California, il principale Stato destinatario dei flussi dall’Estremo oriente.

Tali misure, ancora una volta, assunsero come criterio di esclusione il diverso colore della pelle degli asiatici rispetto agli statunitensi di origine europea o africana, con questi ultimi che non potevano essere banditi dopo l’abolizione della schiavitù e il conferimento – ancorché meramente teorico – ai neri degli stessi diritti dei bianchi a conclusione della guerra civile.

Con il primo conflitto mondiale si volle ostacolare anche la venuta degli europei meridionali e orientali, che non erano di ceppo anglo-sassone e che pertanto sembravano inadatti a vivere negli Stati Uniti.
L’introduzione di una prova di alfabetismo nel 1917 si rivelò insufficiente a frenare questi flussi, a causa dell’aumento della scolarità nei Paesi nell’Europa del Sud e dell’Est.

A mettere fine agli arrivi di massa da tali regioni provvidero due leggi del 1921 e del 1924. Fu introdotto, per la prima volta, un tetto annuale massimo per gli ingressi e i visti furono ripartiti a seconda della nazione di origine, con l’accortezza di favorire gli Stati dell’Europa settentrionale, dai quali non si emigrava quasi più, e di penalizzare quelli dell’Europa meridionale e orientale, dove era invece forte il desiderio di trasferirsi negli Stati Uniti.

Per esempio, all’Italia, dalla quale erano giunte oltre 300.000 persone nel 1919, furono assegnati 42.057 visti nel 1921 e appena 3.845 nel 1924. Di contro, al Regno Unito spettarono rispettivamente 77.342 e 34.007 visti e alla Germania 67.607 e 51.227. Proprio per denunciare questa sperequazione tra i diversi Paesi, nel 1958 Kennedy associò il proprio nome all’immagine degli Stati Uniti come “nazione di immigrati”. Tuttavia, fu il suo successore alla Casa Bianca, Lyndon B. Johnson, a riuscire ad abrogare il sistema delle quote nazionali nel 1965, assegnando a ciascun Paese lo stesso numero di visti (20.000) ogni anno, ma confermando un limite annuale complessivo degli ingressi che impedì il ripristino dei flussi di massa del passato.

Le incrinature del melting pot

Nel frattempo era venuto meno il paradigma del melting pot. Questo modello subì un primo duro colpo durante la prima guerra mondiale. In tale frangente storico, per esempio, gli statunitensi di ascendenza tedesca e irlandese si prodigarono per mantenere la neutralità di Washington nel conflitto: i primi in quanto erano consapevoli che l’ingresso in guerra del Paese d’adozione sarebbe avvenuto a fianco dell’Intesa contro la Germania; i secondi perché convinti che, privato dell’appoggio americano, il Regno Unito avrebbe perduto la guerra e la sconfitta di Londra avrebbe creato le condizioni per l’indipendenza dell’Irlanda.

Gli italoamericani, invece, esercitarono pressioni perché gli Stati Uniti scendessero in campo contro l’Austria-Ungheria e, in occasione della conferenza di pace di Parigi nel 1919, cercarono di spingere il presidente Woodrow Wilson a sostenere le rivendicazioni nazionalistiche dell’Italia su Fiume. Queste e altre forme di mobilitazione delle minoranze etniche in difesa degli interessi delle rispettive nazioni di provenienza dimostrarono che i legami degli immigrati e dei loro discendenti con i Paesi di origine erano tutt’altro che sciolti e che, quindi, il crogiuolo di Zangwill non era riuscito a trasformarli in veri americani nella misura in cui non si erano lasciati alle spalle ogni coinvolgimento nelle vicende europee.

In seguito, ad affossare in modo definitivo il concetto di melting pot fu la partecipazione degli Stati Uniti alla guerra del Vietnam dalla metà degli anni Sessanta. Washington, intervenuta in nome della difesa della libertà dal totalitarismo comunista, si trovò a sostenere il regime autoritario di Saigon, una vera e propria dittatura militare, e le truppe americane si macchiarono di numerosi crimini di guerra.

In questo contesto, i membri delle minoranze etniche si convinsero che i presunti valori statunitensi di libertà, eguaglianza e democrazia, in nome dei quali erano stati indotte per decenni a cancellare il proprio retaggio ancestrale, erano in realtà dei disvalori. Pertanto, gli stimoli all’americanizzazione furono ridimensionati e i diversi gruppi nazionali riscoprirono e cercarono di valorizzare le radici culturali che li collegavano ai rispettivi Paesi di origine.

Il superamento del melting pot

Le dinamiche omogeneizzanti della reinterpretazione del melting pot erano già state stigmatizzate nel 1915 dal filosofo Horace M. Kallen in un saggio dal titolo quanto mai esplicito nel denunciare il nazionalismo posto a fondamento del principio che si richiamava a Zangwill: Democracy versus the Melting Pot (la democrazia contro il melting pot).

Tale modello, a giudizio di Kallen era più prescrittivo che descrittivo, cioè imponeva agli immigrati un determinato comportamento, invece di descrivere le loro libere scelte nell’interazione con il Paese di adozione. Al melting pot, pertanto, Kallen contrappose il concetto di pluralismo culturale, una visione della società americana in cui ciascuna minoranza immigrata, anziché omologarsi alla cultura dominante, avrebbero contribuito ad arricchirla, preservando le proprie specificità in un rapporto armonioso con quelle degli altri gruppi.

Il revival etnico della fine degli anni Sessanta portò alla riscoperta delle teorie di Kallen. Inoltre, la nozione della “nazione di immigrati”, rilanciata da Kennedy poco tempo prima, si trasformò nella visione degli Stati Uniti come “nazione di nazioni”. Il melting pot cedette, quindi, il passo all’idea del “mosaico culturale” quale paradigma più corrispondente alla sopravvivenza e alla rinascita dei particolarismi etnici, mentre la metafora della pentola di fusione lasciò il campo ad altri simboli: dal salad bowl, l’insalatiera dove le verdure si mescolano senza amalgamarsi insieme, allo ethnic stew, lo stufato etnico nel quale i molteplici ingredienti conservano un proprio sapore distinto.

“Make America white again”

Il nazionalismo nell’approccio all’immigrazione e nella conseguente definizione di chi sia uno o una statunitense, da cui Kallen aveva preso le distanze nel 1915, è tornato a dominare le politiche del governo di Washington in una forma ancor più esasperata con la presidenza di Trump. Secondo The Donald, gli Stati Uniti sono una proiezione dell’Europa e, di conseguenza, solo coloro che sono di ascendenza europea possono dirsi veri americani.

Non a caso, nel corso del primo mandato, durante un contrasto con quattro deputate progressiste del partito democratico – Alexandria Ocasio-Cortez, di ascendenza portoricana, l’afroamericana Ayanna Pressley, Rashida Tlaib, figlia di immigrati palestinesi, e Ilhan Omar, nata in Somalia – il tycoon le aveva poco elegantemente invitate a tornarsene “a casa propria”, come se il fatto di non essere euro-discendenti precludesse loro la piena appartenenza agli Stati Uniti. Su questa stessa linea, il deputato repubblicano del Tennessee Andy Ogles ha recentemente proposto di revocare la cittadinanza statunitense a Zohran Mamdani, fresco vincitore della nomination democratica per la carica di sindaco della città di New York e attuale membro dell’assemblea legislativa dello Stato di New York, un immigrato ugandese di origini indiane, naturalizzato americano nel 2018.

Dopo il suo ritorno alla Casa Bianca, Trump ha annullato la protezione contro la deportazione per circa mezzo milione di rifugiati haitiani, tutte persone afro-discendenti, che era stata decisa da Joe Biden per motivi umanitari, e ha iniziato a cancellare i visti rilasciati a studenti africani per frequentare scuole, college e università negli Stati Uniti. Di contro, The Donald si è detto pronto ad accogliere migliaia di Afrikaner, i sudafricani bianchi discendenti dei colonizzatori boeri, che considera perseguitati dal governo di Pretoria del presidente nero Cyril Ramphosa per presunti motivi razziali.

Inoltre, la stragrande maggioranza degli immigrati deportati in maniera sommaria nei sei mesi intercorsi dal secondo insediamento è costituita da ispanici e l’amministrazione federale ha di fatto espulso alcuni bambini cittadini statunitensi, costringendoli a seguire le madri, di ascendenza non europea come i figli, rimpatriate in America centrale perché immigrate irregolari.

Tali decisioni di Trump, nel loro complesso, sembrano tutte segnali per tornare a definire lo statunitense ideale come “un europeo o il discendente di un europeo”, secondo quanto osservato da Crèvecoeur alla fine del Settecento, come se i nativi americani nonché soprattutto i milioni di africani, asiatici e ispanici trasferitisi negli Stati Uniti negli oltre due secoli seguenti non avessero lasciato traccia nei connotati della popolazione del Paese. In questa prospettiva, lo slogan elettorale di The Donald “make America great again” (rendiamo di nuovo grande l’America) potrebbe essere legittimamente parafrasato con la formula “make America white again” (rendiamo di nuovo bianca l’America).
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Stefano Luconi insegna Storia degli Stati Uniti d’America nel dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università di Padova. Le sue pubblicazioni comprendono La “nazione indispensabile”. Storia degli Stati Uniti dalle origini a Trump (2020), Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022 (2022), L’anima nera degli Stati Uniti. Gli afro-americani e il difficile cammino verso l’eguaglianza, 1619–2023 (2023). La corsa alla Casa Bianca 2024. L’elezione del presidente degli Stati Uniti dalle primarie a oltre il voto del 5 novembre (2024).

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