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Usa, il fallimento del Doge e la questione dello Stato amministrativo vanno al di là dello scontro tra Trump e Musk

Il passo indietro di Musk dalla guida del Department of Government Efficiency (DOGE) rivela il fallimento del progetto tecnocratico voluto da Trump: obiettivi mancati, risparmi deludenti e un esperimento politico ai margini della democrazia

Usa, il fallimento del Doge e la questione dello Stato amministrativo vanno al di là dello scontro tra Trump e Musk

Le dimissioni di Elon Musk dalla guida effettiva del Department of Government Efficiency (DOGE), la cui responsabile è sempre stata formalmente un’oscura funzionaria repubblicana di nome Amy Gleason, vengono in genere presentate come un effetto collaterale della rottura dei rapporti tra Donald Trump e il CEO di Tesla e SpaceX nonché presidente di X (già Twitter).

Minore attenzione è stata, invece, data il fatto che il DOGE ha in sostanza mancato gli obiettivi che si era posto, una constatazione che contribuisce a spiegare la ragione per la quale Musk ne abbia abbandonato la direzione il 28 maggio prima ancora che la rottura con Trump diventasse di dominio pubblico.

Il fallimento del DOGE

Il DOGE è stato istituito come task force temporanea di consulenti della Casa Bianca con uno dei numerosi decreti presidenziali emanati il giorno del secondo insediamento di Trump, nello specifico il 14158, allo scopo di rendere più efficiente l’amministrazione federale e massimizzarne il rendimento.

Fin dall’inizio, però, è mancata una quantificazione della produttività che il DOGE si era prefissato e l’unico parametro indicato come target significativo è stato un risparmio della spesa federale dell’ordine di circa 2.000 miliardi ogni anno, circa un terzo del bilancio complessivo del governo.

Lo scorso 3 giugno il sito Internet del DOGE si attribuiva il merito, dopo oltre quattro mesi di attività, di avere razionalizzato l’amministrazione federale in modo da consentire una diminuzione delle spese per un ammontare di 180 miliardi di dollari, cioè una cifra inferiore al 10% del traguardo che intendeva raggiungere, un vero e proprio insuccesso ai limiti del disastro.

Questo risparmio trascurabile, raggiunto attraverso una riduzione dell’organico dell’amministrazione federale e al prezzo di costi non indifferenti (stimati da alcuni addirittura in 135 miliardi di dollari), ha indotto non pochi analisti a concludere che il contenimento delle uscite sarebbe stato nient’altro che un pretesto per licenziare alcune migliaia di funzionari che non erano allineati con le posizioni di Trump, nell’ambito della più vasta campagna ingaggiata da The Donald contro il deep state, quello zoccolo duro di burocrati progressisti intenzionati a sabotare l’agenda politica del tycoon.

La dimensione odierna dell’impiego federale

Gli stipendi del personale ammontano complessivamente ad appena il 6% delle uscite federali annue. Tuttavia, poiché il 75% dell’originaria sforbiciata di 2.000 miliardi di dollari della spesa avrebbe riguardato questa voce, l’iniziativa del DOGE ha portato in primo piano anche la questione della crescita, ipoteticamente sovrabbondante, dell’organico dell’amministrazione federale.

Alla fine del 2024 i dipendenti federali erano poco più di 2,4 milioni, ai quali andavano aggiunti oltre 600.000 addetti del servizio postale, che è considerato formalmente un’agenzia indipendente.

Fornendo un’occupazione a quasi il 2% del totale della popolazione attiva, senza contare i circa 1,3 milioni di militari in servizio attivo negli Stati Uniti e all’estero, il governo federale costituisce il principale datore di lavoro per numero di dipendenti a livello nazionale.

Questo ruolo si è rafforzato nell’ultimo quarto di secolo in termini assoluti, nella misura di una crescita di circa l’1% dell’organico ogni anno, in considerazione del fatto che nel 2000 il personale federale, escluso quello inquadrato nel servizio postale, sfiorava 1.860.000 addetti.

L’incremento è stato, invece, poco significativo in termini percentuali rispetto alla forza lavoro statunitense totale.

Crescita degli organici e presunta inefficienza amministrativa

In tempi recenti l’aumento dei dipendenti pubblici, messo in relazione alla moltiplicazione delle competenze del governo, è stato considerato una sorta di cartina di tornasole delle disfunzioni dell’amministrazione federale.

Pertanto, parlando ancora una volta alla pancia del Paese come suo solito e facendosi interprete delle apprensioni espresse da una parte della società statunitense, quella che vede il proprio individualismo minacciato dalle presunte ingerenze dello Stato, Trump ha potuto equiparare il taglio del personale indicato dal DOGE allo strumento per snellire la burocrazia in termini di numero degli addetti, a garanzia di un’amministrazione non solo meno costosa per l’erario e i contribuenti, ma anche più capace e maggiormente produttiva a beneficio dei cittadini.

Da questo punto di vista, soprattutto grazie al rilievo che vi ha avuto un imprenditore di successo e più o meno visionario come Musk, il DOGE è stato pure un tentativo di introdurre embrioni di tecnocrazia per semplificare le procedure dell’amministrazione federale, quasi un esperimento in vista di una transizione dalla democrazia a un governo di esperti, collocati in posizioni decisionali in virtù delle loro competenze professionali anziché nella veste di rappresentanti eletti dal popolo.

Non a caso, in un editoriale uscito sul “Wall Street Journal” il 20 novembre 2024, due settimane dopo le elezioni presidenziali dello scorso anno, e firmato insieme a un altro imprenditore, Vivek Ramaswamy, già sfidante di Trump nelle primarie repubblicane e al tempo ipotetico condirettore del DOGE, Musk aveva presentato il progetto del DOGE sulla falsariga delle tradizionale denuncia del conservatorismo libertario contro la dimensione ipertrofica della burocrazia federale, vista come una minaccia per la repubblica (si badi bene, non per la democrazia, la cui salvaguardia evidentemente non rappresentava una necessità per la componente tecnocratica dell’amministrazione Trump).

Per Musk, come ebbe a dichiarare nel 2021 in occasione del trasferimento del quartier generale di Tesla dalla California ad Austin, nel Texas, i burocrati erano il “partito delle tasse e delle regole”, cioè coloro che vessavano i cittadini sia finanziariamente, sia ostacolandone le attività con una normativa asfissiante.

I tecnocrati di oggi

Gli aspiranti tecnocrati odierni sono i pezzi grossi della high tech, quelli che – al netto di mogli e compagne – erano in primissima fila, quasi con il cappello in mano, alla cerimonia di insediamento di Trump: Mark Zuckerberg di Meta, Jeff Bezos di Amazon e Sundar Pichai di Google, saltati in tempo utile sul carro del vincitore (per esempio, a pochi giorni dal voto, Bezos vietò alla redazione del “Washington Post”, di cui è proprietario, di pubblicare un editoriale in appoggio alla candidatura di Kamala Harris nelle elezioni presidenziali del 2024), oltre all’allora immancabile Musk.

A loro si può aggiungere Peter Thiel – cofondatore e presidente di Palantir Technologies, una società specializzata nell’analisi dei big data – che già nel 2009 teorizzò che la libertà non sarebbe più compatibile con la democrazia e che sarebbero stati la tecnologia e i suoi promotori a creare nuovi spazi di libertà per l’individuo, intesi soprattutto come deregolamentazione del mercato.

Genesi e sviluppi del desiderio di tecnocrazia

Nondimeno, la tecnocrazia è un’istanza che negli Stati Uniti risale all’inizio del Novecento. Emerse in particolare in coincidenza con la ricostruzione di Galveston, una città del Texas semidistrutta da un uragano nel 1900.

Per la sua riedificazione il consiglio municipale fu sostituito nel 1901 da una commissione di esperti, nominati per le loro competenze specifiche e liberi dal controllo dei partiti.

Questo modello, basato sui concetti di professionalità e semplificazione in contrapposizione all’inefficienza e alla lentezza prodotte dal clientelismo partitico, si diffuse negli anni successivi, soprattutto in centri di medie dimensioni e molto omogenei per quanto riguardava il profilo etnico dei residenti, per arginare la corruzione attribuita ai partiti nei governi locali, ma non attecchì nelle grandi metropoli, dove la popolazione era molto più composita.

Nel primo dopoguerra furono circa 400 le città amministrate da commissioni di tecnici, anziché da consigli municipali eletti tra candidati espressi dai partiti e a loro legati. Le proposte di instaurare un regime tecnocratico in sostituzione della democrazia rappresentativa ebbero una breve stagione di popolarità, sia pure senza conseguire risultati concreti, durante la crisi economica degli anni Trenta del Novecento, motivate dalla constatazione che il governo federale, sia sotto il repubblicano Herbert Hoover sia sotto il democratico Franklin Delano Roosevelt, sembrava incapace di far uscire il Paese dalla recessione.

Tramontato quando lo scoppio della seconda guerra mondiale segnò la fine della crisi economica e fece emergere altre priorità, il movimento per la tecnocrazia ebbe un sussulto negli anni Novanta del Novecento.

Pur senza richiamarvisi in maniera esplicita, la candidatura alla Casa Bianca dell’imprenditore informatico Ross Perot, una sorta di Trump ante litteram, nel 1992 e nel 1996 si ispirò a forme di tecnocrazia, soprattutto quando promise di ripianare il deficit del bilancio federale attraverso lo stesso metodo contabile con il quale avrebbe operato una grande azienda, cioè tagliando le voci di spesa che corrispondevano a rami secchi e improduttivi quali la previdenza sociale e l’assistenza medica per anziani e indigenti, precorrendo per certi versi la simbolica motosega regalatagli dal presidente argentino Javier Milei e brandita da Musk lo scorso febbraio alla Conservative Political Action Conference.

Lo Stato amministrativo e i suoi critici

In tempi recenti le prospettive di transizione alla tecnocrazia si sono intrecciate con le critiche a una iper-regolamentazione amministrativa che moltiplicherebbe le funzioni meramente burocratiche del governo federale, con quella conseguente dilatazione degli organici che il DOGE si era proposto di invertire, e finirebbe per rallentare l’innovazione, fino a soffocarla, soprattutto in settori quali lo sviluppo delle infrastrutture, il controllo del cambiamento climatico e l’edilizia, in particolare quella abitativa.

Sembra una riproposizione dell’aforisma che il repubblicano Ronald Reagan mise al centro del suo discorso di insediamento alla presidenza nel 1980: “il governo non è la soluzione ai problemi; il governo è il problema”.

Al di là dell’invenzione pretestuosa di emergenze inesistenti (dall’“invasione” degli affiliati a una gang criminale venezuelana, per giustificare le deportazioni sommarie di massa degli immigrati irregolari, alle “minacce straniere” all’economia nazionale, per motivare l’imposizione di dazi stratosferici), lo stesso decisionismo trumpiano, con il suo ricorso a provvedimenti di urgenza varati per mezzo di decreti presidenziali, anziché attraverso le normali procedure legislative del Congresso, si alimenta alla concezione di una presunta lentezza della macchina dello Stato federale, a cui sarebbe necessario porre rimedio.

Un insolito connubio tra conservatori anti-trumpiani, come Francis Fukuyama, e autori riformisti, quali Ezra Klein, Derek Thompson e Marc Dunkelman, condivide l’idea che l’amministrazione di Washington abbia bisogno di essere modernizzata per ovviare alla sua inefficienza e colloca sul banco degli imputati i progressisti e, in particolare, una svolta che la Sinistra statunitense fece maturare alla fine degli anni Sessanta del Novecento.

In precedenza, come sostiene Dunkelman in Why Nothing Works: Who Killed Progress and How to Bring It Back (Public Affairs, 2025), il progressismo sarebbe stato caratterizzato da una continua dialettica tra due componenti: la prima propugnava un governo decisionista per realizzare in tempi rapidi riforme significative promuovendole dall’alto, sul modello di quanto realizzato delle presidenze del repubblicano Theodore Roosevelt (1901-1909), un conservatore “illuminato”, e del democratico Franklin Delano Roosevelt (1933-1945) con il New Deal; la seconda temeva le possibili degenerazioni di un’autorità federale eccessivamente centralizzata, richiamandosi ai moniti del democratico Thomas Jefferson (1801-1809), e patrocinava la dispersione del potere, la frammentazione decisionale e i controlli dal basso.

Quest’ultima anima del progressismo avrebbe preso il sopravvento al termine degli anni Sessanta, edificando in modo deliberato una gabbia di regolamenti che avrebbe di fatto condannato il governo all’impotenza.

Esempi significativi in proposito, secondo Abundance (Simon & Schuster, 2025) di Klein e Thompson, consisterebbero nella constatazione che una caterva di vincoli amministrativi ha impedito a vent’anni di finanziamenti pubblici di costruire una rete ferroviaria ad alta velocità in California nonché nel fatto che il modo migliore di realizzare sistemi abitativi con programmi di riabilitazione per i residenti a San Francisco è stato quello di avvalersi delle donazioni di filantropi privati, anziché doversi destreggiare in una giungla normativa per ricorrere a finanziamenti pubblici.

Le origini dello Stato amministrativo

In realtà, lo Stato amministrativo sorse negli Stati Uniti proprio durante i due mandati di Theodore Roosevelt e vide il suo consolidamento sotto i quattro di Franklin Delano Roosevelt. La prima significativa crescita della burocrazia federale si registrò ai primi del XX secolo, con il suo organico che quasi raddoppiò tra il 1900 e il 1912, passando circa 240.000 dipendenti a grosso modo 400.000 addetti.

La legittimazione dello Stato amministrativo giunse in questo arco di tempo, nel 1911, con la sentenza della Corte Suprema sul caso United States v. Grimaud. Il verdetto sancì che le norme amministrative avevano forza di legge.

Inoltre, la promozione della tecnocrazia si sviluppò in quello stesso periodo, in parallelo ai tentativi di alcune grandi aziende di sottrarre le loro attività alla supervisione di agenzie federali, come la Interstate Commerce Commission (ICC), che nel 1906 acquisì il potere di fissare tariffe eque nel trasporto ferroviario, e la Food and Drugs Administration, che fu istituita nello stesso anno per tutelare la salute dei consumatori nel campo dei prodotti alimentari e farmaceutici.

Secondo lo storico Albro Martin (Enterprise Denied: Origins of the Decline of American Railroads, Columbia University Press, 1971), in una sorta di anticipazione all’inizio del Novecento della tesi di Dunkelman relativa alla fine del secolo, la ICC avrebbe reso il sistema ferroviario “prigioniero” degli interessi degli utenti commerciali, arrestando lo sviluppo di questo genere di infrastrutture negli Stati Uniti.

Nondimeno, le competenze della ICC furono pensate per razionalizzare e semplificare la gestione del trasporto ferroviario, superando la situazione caotica che si era venuta a creare con la sovrapposizione di norme in parte contraddittorie, varate dai singoli Stati, che finivano per intralciare le società che operavano in ambito nazionale.

Esperienze positive recenti

Altre agenzie regolamentatrici sono sorte proprio per rendere più efficiente l’amministrazione federale. Uno dei casi più recenti e significativi è stato quello della creazione del Consumer Financial Protection Bureau (CFPB), fondato nel 2010 per razionalizzare e semplificare la protezione dei consumatori in campo finanziario, accorpando agenzie preesistenti, dopo l’esperienza della cartolarizzazione dei mutui subprime che aveva concorso in maniera rilevante alla grande recessione iniziata nel 2008.

Dalla sua nascita il CFPB ha ottenuto la restituzione di circa 21 miliardi di dollari ai consumatori e ha emanato norme contro gli abusi nella concessione dei mutui per l’acquisto della casa e dei prestiti agli studenti per pagarsi il college e l’università, una delle voci maggiori di indebitamento per gli statunitensi (oggi gravano su circa 45 milioni di individui per un ammontare medio di 30.000 dollari a testa).

Il CFPB, che lo scorso anno aveva un personale di circa 1.800 dipendenti, è stato anche una delle agenzie maggiormente prese di mira dal DOGE, che ha proposto il licenziamento del 90% del suo staff allo scopo di cancellarne l’operatività e trasformarlo – per citare il suo ex direttore, Rohit Chopra, nominato da Joe Biden e destituito da Trump all’inizio dello scorso febbraio – da “cane da guardia” a “cane da compagnia” delle società finanziarie.

Non a caso, l’estromissione di Chopra fu celebrata da Musk, allora all’apice del potere nel DOGE e nell’amministrazione Trump, con un lugubre post su X: “CFPB RIP”, cioè “riposi in pace il CFPB”.

Inoltre, la crescita del personale federale non è legata necessariamente alla moltiplicazione di burocrati incaricati di applicare una pletora di normative regolamentatrici, bensì scaturisce dal progressivo ampliamento delle funzioni dello Stato al settore assistenziale.

Oggi il dipartimento federale al quale afferisce il maggior numero di addetti civili (quindi esclusi ancora una volta il settore dei militari in servizio attivo e l’agenzia indipendente delle poste), quasi 490.000, è quello degli Affari dei Veterani, che gestisce un’ampia rete di ospedali, cliniche e centri di assistenza medica.

Alcuni aspetti di quel poco di stato sociale presente nell’amministrazione federale attestano anche una gestione contabile più efficiente di quella ipotizzata dai suoi critici. Ad esempio, la proporzione della spesa per la riforma sanitaria del democratico Barack Obama in rapporto al PIL è oggi inferiore di quasi l’1% rispetto alle stime formulate dai suoi contestatori repubblicani al momento del suo varo nel 2010.

Stato amministrativo e tecno-reazionari oggi

Sul “New York Times”, il 9 novembre 2024, Maureen Dowd ha riassunto il significato della rielezione di Trump alla Casa Bianca con la formula “woke is broke” (la cultura woke è andata in bancarotta). Lo stesso, però, non può essere affermato per lo Stato amministrativo.

Con buona pace di Fukuyama, che con il proprio avallo alla campagna di Musk per un’amministrazione pubblica semplificata e più efficiente in un articolo sul “Financial Times” del 30 maggio riecheggiava implicitamente il noto assunto secondo cui anche un orologio rotto (nella fattispecie la seconda presidenza di The Donald) segna l’ora esatta una volta al giorno, l’estromissione dell’ex capo del DOGE segna una battuta di arresto per la componente tecno-reazionaria dell’amministrazione Trump e un punto a favore di quella populista.

Del resto, questo assetto nei rapporti di forza era già evidente nella difesa a oltranza da parte di Trump di una tipica politica antiliberista espressione di una delle funzioni dello Stato amministrativo, non solo per i propri contenuti ma anche per gli strumenti attraverso i quali viene attuata: il protezionismo doganale imposto attraverso decreti presidenziali anziché per mezzo di misure varate dal Congresso.

In ogni caso, le dimissioni di Musk dimostrano la resilienza dell’amministrazione federale e la velleità di chi vorrebbe gestirla e ridimensionarla come se fosse una delle tante aziende della high tech.

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