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Retribuzioni manager pubblici, Moretti: come aver torto anche quando si ha ragione

La politica dei tetti alle retribuzioni è buona per la demagogia spicciola: la cultura del risultato è ciò che davvero manca nella Pa e nelle aziende pubbliche – Sarebbe necessario fissare dei parametri per legare la retribuzione ai target raggiunti sia nel contenimento dei costi, sia nello sviluppo dell’impresa e nella soddisfazione dei clienti.

Retribuzioni manager pubblici, Moretti: come aver torto anche quando si ha ragione

Certo Mauro Moretti non è un accorto comunicatore. Con quella improvvida dichiarazione contro l’intenzione del Governo di mettere un tetto alle retribuzioni del manager pubblici si è attirato le ironie e gli insulti di migliaia di cittadini che sui social network si sono scatenati contro la sua “arroganza”. Poi sono intervenuti anche i politici, tra i quali il ministro dei Trasporti, che in pratica ha detto che le FS possono anche fare a meno di lui, e gli imprenditori come Diego della Valle che con linguaggio truculento lo ha invitato ad andarsene il prima possibile.

Ma, al di là del polverone, il problema sollevato da Moretti è reale e non si può affrontare in maniera semplicistica mettendo un tetto uguale per tutti gli stipendi degli alti funzionari dello Stato. In primo luogo bisognerebbe distinguere tra funzionari pubblici dello Stato, delle Regioni e dei Comuni ed i manager delle aziende che operano sul mercato

Mentre per i primi è corretto fissare dei tetti uniformi e confrontabili con quelli degli altri Paesi europei, per i secondi la valutazione della “giusta remunerazione” è più complessa e deve tener conto sia dei risultati conseguiti sia della necessità di aggiudicarsi i dirigenti più capaci, che altrimenti sarebbero spinti ad andare verso la concorrenza. Per la verità un criterio di valutazione dei risultati (sulla base dei quali fissare anche la politica retributiva) andrebbe introdotto anche per i direttori generali dei ministeri e per gli alti gradi della burocrazia. Bisogna abbandonare la farsa della situazione attuale secondo la quale tutti i dirigenti sono valutati al massimo e quindi tutti prendono il più elevato premio di produttività.

La cultura del risultato è insomma quello che davvero manca nella Pubblica amministrazione e nelle aziende pubbliche. Quindi la politica dei tetti alle retribuzioni è buona per fare un po’ di demagogia spicciola, ma certo non risolve il problema né delle retribuzioni eccessive di molti alti papaveri del settore pubblico, né quello ancora più importante, di pretendere maggiore efficienza nella gestione dei beni pubblici. I tetti infatti possono essere facilmente aggirati facendosi dare una ulteriore retribuzione da altri enti o altre società private, mentre la necessità di fornire servizi migliori a costi più bassi non riceve nessun impulso da retribuzioni uniformi e slegate dai risultati ottenuti.

In realtà la questione degli alti stipendi dei dirigenti pubblici (molti dei quali hanno raggiunto quella posizione per meriti politici e non per la propria professionalità) andrebbe affrontata in modo totalmente diverso. In primo luogo bisognerebbe cancellare tutte quelle società che non hanno alcuna operatività ma servono solo a dare stipendi a ex politici o amici dei politici. Anche 150 o 200 mila euro l’anno (al di sotto del tetto) sono infatti troppi per chi sta solo a scaldare la sedia.

In secondo luogo bisognerebbe abolire il cumulo tra gli stipendi di varie amministrazioni (cosa tentata da Mario Monti ma non si sa con che esito), e tra la pensione e uno stipendio pubblico. Poi sarebbe necessario fissare dei parametri per legare la retribuzione ai risultati ottenuti sia in termini di contenimento dei costi, sia in termini di sviluppo dell’azienda o di soddisfazione dei clienti per i servizi offerti.

Solo in questo modo si potrebbe correttamente valutare la retribuzione di Moretti, che in cifra assoluta appare elevata, ma che forse in base ai risultati raggiunti potrebbe essere ritenuta adeguata. Analogo ragionamento vale per le tante aziende pubbliche quotate in Borsa dove non ha senso, ad esempio, il ragionamento del sindaco di Roma Marino di voler ridurre gli stipendi dei vertici di Acea, perché non considera il buon andamento dell’azienda nell’ultimo anno. Cosa può mai significare, infatti, voler risparmiare 3 o 4 cento mila euro quando si pone a rischio un maggior valore creato dall’azienda per centinaia di milioni di euro?

Sicuramente le inefficienze e le perdite dello sterminato apparato pubblico sono la vera palla al piede dell’economia italiana. Ma per porvi rimedio non servono scorciatoie demagogiche. Occorre una vera riorganizzazione e uno sfoltimento della fitta rete di aziende che stanno nel settore pubblico solo per soddisfare la sete di potere e di guadagno di tanti politici nazionali e locali.

Se poi si vuole chiedere un contributo di solidarietà alle retribuzione elevate, sia pubbliche che private, si metta un’addizionale temporanea sugli alti stipendi, ma questo si può fare solo dopo aver chiuso o venduto molte delle aziende pubbliche inutili e dopo aver fissato criteri chiari e trasparenti per legare le remunerazioni ai risultati conseguiti. Questi sono i veri tagli che occorre fare alla spesa pubblica. Maggiori tasse, comunque articolate, si possono mettere solo dopo aver dimostrato che si è capaci di chiudere i mille rivoli attraverso i quali il settore pubblico spreca i soldi degli italiani.

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