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Trump riporta in auge la Gilden Age, epoca di clientelismo politico in cui i ricchi divennero sempre più ricchi

Durante la Gilden Age repressione operaia, conflitti di classe, clientelismo e segregazione sociale erano la regola negli Usa. Eppure Trump sembra volersi ispirare proprio a quell’epoca con il suo “Make America Great Again”

Trump riporta in auge la Gilden Age, epoca di clientelismo politico in cui i ricchi divennero sempre più ricchi

Con la sua notoria mania di grandezza Donald Trump vuole creare una enorme sala da ballo nell’ala est della Casa Bianca. Il progetto, il cui costo è stimato in 200 milioni di dollari e verrà interamente finanziato da privati, è stato affidato all’architetto James McCrery II e sarà realizzato con finestre ad arco, colonne sormontate da capitelli corinzi e candelabri, secondo i canoni neoclassici della Gilded Age.

La scelta dello stile non è solo esemplificativa dei gusti architettonici di The Donald, che evidentemente non apprezza il brutalismo, di cui il J. Edgar Hoover Building, il quartier generale del Federal Bureau of Investigation, e il Robert C. Weaver Federal Building, la sede del dicastero della Casa e dello Sviluppo Urbano, voluto dal presidente democratico John F. Kennedy, sono forse le espressioni più rilevanti a Washington.

L’opzione estetica è anche rappresentativa di un’epoca che sembra sempre di più essere il periodo della storia degli Stati Uniti preferito dal tycoon.

La nostalgia trumpiana per gli Stati Uniti della fine dell’Ottocento

Con l’espressione Gilded Age, letteralmente età dorata, si indica quella fase della storia americana che copre grosso modo l’ultimo quarto dell’Ottocento e il primo biennio del Novecento.

Furono anni contraddistinti da una crescita quasi ininterrotta dell’economia (fatta eccezione per una recessione che si manifestò tra il 1893 e il 1897), con il PIL che aumentò di oltre il 230% tra il 1870 e il 1900, dalla formazione di ampie concentrazioni industriali, dall’imposizione di alte tariffe doganali a protezione della produzione delle manifatture statunitensi sul mercato interno e dai primi passi della trasformazione di Washington in una potenza mondiale a seguito della vittoria contro la Spagna nella guerra ispano-americana del 1898.

Basterebbero questi pochi elementi per spiegare con facilità la nostalgia che The Donald prova tale epoca. Lo slogan trumpiano “make America great again” (MAGA, rendiamo di nuovo grande l’America) parrebbe esprimere il desiderio di un ritorno a questo momento del passato.

Non a caso, uno dei predecessori alla Casa Bianca più stimati da Trump, che lo ha definito “un grande presidente” nel suo secondo discorso di insediamento e in onore del quale ha fatto ribattezzare il rilievo più alto degli Stati Uniti, è il repubblicano William McKinley, rimasto in carica dal 1897 al 1901, quando la morte in conseguenza delle ferite riportate in un attentato subito qualche giorno prima segnò non solo la fine della sua amministrazione ma anche la conclusione della Gilded Age.

McKinley, prima come rappresentante dell’Ohio alla Camera con un disegno di legge del 1890 e poi in veste di presidente con un provvedimento promulgato nel 1897, fece innalzare i dazi sulle importazioni in misura considerevole.

Il protezionismo legò il ceto operaio a McKinley nelle elezioni del 1896 e del 1900 perché i lavoratori conclusero che una presidenza repubblicana avrebbe salvaguardato i livelli occupazionali e creato addirittura nuovi impieghi.

Inoltre, McKinley restituì centralità alla figura del presidente nel definire le scelte del Paese, dopo che negli anni successivi all’omicidio di Abraham Lincoln nel 1865 l’assenza di inquilini carismatici alla Casa Bianca aveva di fatto permesso al Congresso di dettare l’agenda politica.

In particolare, McKinley dette prova di decisionismo nel 1900, quando aggregò truppe statunitensi al contingente multinazionale inviato in Cina dalle potenze occidentali e dal Giappone per rompere l’assedio alle legazioni straniere a Pechino e sedare la rivolta dei Boxer.

Mandò, infatti, i soldati americani senza chiedere l’autorizzazione al Congresso, con il pretesto che l’assemblea legislativa non era in sessione e convocare deputati e senatori a Washington avrebbe fatto perdere tempo prezioso.

McKinley fu, infine, il presidente che sconfisse la Spagna nel 1898 in sole dieci settimane di combattimenti e conquistò le Filippine, Portorico e Guam, oltre a occupare temporaneamente Cuba.

Sia pure con le dovute cautele, conseguenza del fatto che si sta parlando di vicende di oltre un secolo fa, quanto fatto e ottenuto da McKinley negli ultimi anni della Gilded Age rappresenta una specie di anticipazione di iniziative, risultati e progetti di Trump: la guerra commerciale con il resto del mondo combattuta a colpi di dazi doganali, il conseguimento della maggioranza relativa del voto operaio nel 2024 grazie alla promessa di creare posti di lavoro nel settore industriale attraverso il protezionismo, l’autoritarismo nell’aggirare il Congresso per mezzo di un ricorso sistematico agli ordini esecutivi, l’espansionismo territoriale con il tentativo di acquistare la Groenlandia dalla Danimarca, la proposta di trasformare il Canada nel 51° Stato dell’Unione e la rivendicazione del ripristino del controllo statunitense sulla zona del Canale di Panama.

Più in generale, le odierne concentrazioni imprenditoriali nel mondo dell’high tech (ad esempio il controllo di Meta Platform Inc. su Facebook, Instagram, WhatsApp e Messenger), il settore trainante dell’economia americana di oggi, ricordano i monopoli e gli oligopoli che nel corso della Gilded Age furono costituiti nell’estrazione mineraria, nella siderurgia e nel trasporto ferroviario, cioè in quelli che erano i comparti di punta degli Stati Uniti della fine dell’Ottocento.

La Gilded Age tra finzione e realtà

Al di là delle preferenze di Trump, esiste oggi una versione idealizzata della Gilded Age, alimentata negli ultimi anni dalla popolarità di una omonima e fortunata serie televisiva trasmessa negli Stati Uniti da HBO dal 2022, giunta alla terza stagione e con una quarta già in programmazione.

La fiction è stata concepita come una sorta di versione statunitense di Downtown Abby, la serie ambientata invece in Inghilterra all’inizio del Novecento, con la quale condivide non a caso lo sceneggiatore, Julian Fellowes.

In particolare, The Gilded Age televisiva propone una visione idealizzata dell’epoca storica in cui è ambientata, mettendo in scena il contrasto tra due famiglie newyorkesi, la dinastia van Rhijn-Brook e i Russell.

La prima rappresenta la vecchia élite newyorkese, con radici nell’America coloniale ma economicamente in declino.

I secondi costituiscono la quintessenza dei nuovi ricchi che hanno fatto fortuna dopo la guerra civile ma, nonostante le ingenti risorse finanziarie accumulate, non sono ancora riusciti a soddisfare la loro principale aspirazione: vedersi riconosciuto il pieno inserimento al vertice dell’aristocrazia sociale delle citta e degli Stati Uniti.

La serie enfatizza il mito americano della permeabilità delle classi sociali per chi è dotato di spirito e capacità imprenditoriali: il giovane John “Jack” Trotter, uno dei valletti della famiglia van Rhijn-Brook, vende il brevetto di un meccanismo per orologi da lui inventato, ricevendo un compenso che lo rende all’istante molto più ricco della sua datrice di lavoro.

La vicenda sembra costruita sulla falsariga della trama dei romanzi coevi per lettori adolescenti di Horatio Alger Jr. (1832-1899), nei quali il protagonista è generalmente un ragazzo povero che raggiunge l’agiatezza economica e la rispettabilità sociale attraverso l’ambizione, il duro lavoro e la determinazione.

Inoltre, sebbene dia conto della violenza razzista nel Sud mettendo in scena un mancato linciaggio a Tuskegee, in Alabama, la serie ridimensiona la discriminazione razziale nel Nord, dove Agnes van Rhijn, in modo alquanto implausibile, assume una giornalista afroamericana come segretaria personale e la ospita addirittura nella propria magione newyorkese.

L’apice dell’edulcorazione della storia viene raggiunto nel sesto episodio della seconda stagione, quando l’apparentemente spietato imprenditore George Russell – un personaggio ispirato alla figura di un personaggio storico reale, il magnate delle ferrovie William K. Vanderbilt – impedisce a un drappello di soldati della Guardia Nazionale di sparare sugli scioperanti nel corso di un picchettaggio volto a impedire ai crumiri di sostituire nelle fabbriche siderurgiche di Pittsburgh – di proprietà di Russell – la manodopera scesa in sciopero per salari migliori.

Il vero conflitto di classe nella Gilded Age 

La Gilded Age fu, invece, caratterizzata da scioperi particolarmente cruenti. L’inizio di questa epoca coincise proprio con il primo sciopero a carattere nazionale, che nel 1877 coinvolse l’intero settore del trasporto ferroviario e venne soffocato nel sangue (i morti furono un centinaio) da un intervento congiunto di esercito, forze di polizia locale e milizie private degli imprenditori.

Quello proclamato nel 1892 nelle acciaierie di Homestead, un centro alle porte di Pittsburgh, in Pennsylvania (su cui è lontanamente modellato l’episodio di George Russell nella serie televisiva, anche se collocato nel 1883), causò almeno sette morti tra gli operai, quando il tentativo di forzare i picchetti degli scioperanti si trasformò in una vera e propria battaglia tra questi ultimi e gli agenti della Pinkerton, un’agenzia di poliziotti privati che cercavano di scortare i crumiri all’interno degli impianti.

Due anni dopo, l’intervento dell’esercito per mettere fine a un altro sciopero – questa volta a Pullman, una località nei pressi di Chicago in Illinois, dove venivano fabbricate carrozze ferroviarie – provocò tra i 30 e i 70 morti, a seconda delle diverse stime sul numero delle vittime.

Una Corte Suprema compiacente con gli imprenditori rese estremamente facile il ricorso a ingiunzioni giudiziarie per porre fine agli scioperi perché considerò i sindacati come organizzazioni volte a esercitare un controllo monopolistico della manodopera in violazione dello Sherman Anti-Trust Act del 1890.

Questa legge non venne quasi mai applicata per lo scopo per cui era stata pensata, cioè per spezzare le concentrazioni aziendali, ma fu invece largamente utilizzata contro le organizzazioni che difendevano gli interessi dei lavoratori.

Le altre molteplici ombre della Gilded Age

In effetti, la Gilded Age ebbe anche una dimensione particolarmente cupa, che non fu limitata alla sola repressione sistematica e violenta delle rivendicazioni operaie in un contesto in cui il proletariato industriale viveva in condizioni di estrema precarietà, con giornate lavorative che potevano superare le dieci ore nonché senza forme di previdenza e ammortizzatori sociali come i sussidi di disoccupazione o le assicurazioni contro gli infortuni.

In quegli anni, negli Stati del Sud, dove la schiavitù era rimasta in vigore fino alla conclusione della guerra civile nel 1865, si verificò un consolidamento della segregazione razziale, cioè della separazione fisica tra bianchi e neri nei luoghi pubblici, nei trasporti e nelle scuole in applicazione di leggi che vietavano i contatti tra persone di razza diversa.

Inoltre, agli afro-americani fu progressivamente impedito di votare, non solo attraverso il ricorso a violenze e intimidazioni, come attestato dalla moltiplicazione dei casi di linciaggio di afro-discendenti che avevano cercato di opporsi alla riduzione dei loro diritti civili e politici, ma anche per mezzo di provvedimenti per aggirare il XV emendamento della Costituzione federale, che aveva conferito il suffragio ai maschi neri nel 1870.

Per esempio, furono introdotti requisiti di alfabetismo, reddito minimo e possesso di nozioni di educazione civica quali condizioni imprescindibili per potersi registrare nelle liste dei votanti.

Tali misure andarono a colpire soprattutto la popolazione afroamericana, senza affermare esplicitamente che la si voleva espellere dall’elettorato attivo per l’appartenenza razziale, perché era quella maggiormente affetta da analfabetismo e povertà e fecero crollare l’affluenza dei neri alle urne.

Tutte le donne, invece, continuarono a vedersi negato il diritto di voto, a prescindere dalla razza.

Inoltre, in campo economico, la diffusione dei trust gravò sui consumatori, che non potevano contare sul contenimento dei prezzi di prodotti e servizi che sarebbe invece scaturito da un regime di concorrenza tra le aziende sul libero mercato.

Il risultato fu quello di determinare una crescente sperequazione nella distribuzione della ricchezza, grazie anche all’assenza di imposte federali sul reddito, che sarebbero state introdotte solo con il XVI emendamento della Costituzione, ratificato nel 1913.

La Gilded Age fu, pertanto, il primo periodo della storia statunitense che vide i ricchi diventare sempre più ricchi, i poveri divenire sempre più poveri e il ceto medio subire un processo di crescente proletarizzazione, come denunciò al tempo il giornalista Henry George in Progress and Poverty (1879) e ha più recentemente ribadito anche l’economista francese Thomas Piketty in Le Capital au XXIe siècle (2013).

Non a caso, i protagonisti dell’imprenditoria dell’epoca, come il vero William K. Vanderbilt e il fittizio George Russell, furono definiti robber barons, cioè baroni ladri, secondo una terminologia introdotta già nel 1870 dalla rivista Atlantic Monthly per designare coloro che si stavano arricchendo in fretta, con metodi spesso al di fuori della legalità e attraverso lo sfruttamento indiscriminato della forza lavoro.

L’espressione conteneva una duplice stigmatizzazione. Da un lato, criticava il comportamento di chi aveva ammassato milioni di dollari ricorrendo a pratiche indebite. Dall’altro, contestava l’illegittima preminenza sociale di costoro, in quanto barone è un titolo nobiliare che era, dunque, fuori luogo in una repubblica come gli Stati Uniti.

Gilded Age e golden age

La Gilded Age non fu quella golden age (l’età dell’oro) che, in base alle parole testuali del secondo discorso di insediamento di Trump, sarebbe “appena iniziata” con il ritorno del tycoon alla Casa Bianca lo scorso 20 gennaio.

Anzi, l’età dorata è un qualcosa che si contrappone all’età dell’oro, in quanto nella prima l’oro è un apparente luccichio superficiale, mentre nella seconda costituisce la vera sostanza.

The Gilded Age: A Tale of Today era il titolo di un romanzo pubblicato nel 1873 da Mark Twain e Charles Dudley Warner. Si trattava di una satira della corruzione che stava caratterizzando il sistema politico del tempo, in particolare l’amministrazione del repubblicano Ulysses S. Grant (1869-1877), occultata sotto una patina epidermica di prosperità.

Il grande stratega militare della guerra civile si stava rivelando uno statista incapace, un alcolizzato che aveva riposto eccessiva fiducia nei suoi collaboratori, i quali ne avevano approfittato per arricchirsi in maniera illecita.

In effetti, la presidenza di Grant fu contrassegnata da numerosi scandali. I principali furono tre.

Il primo iniziò prima ancora che Grant entrasse in carica, ma investì molti esponenti del partito repubblicano a lui vicini. Il Crédit Mobilier, la società creata per realizzare un tratto della prima ferrovia transcontinentale, gonfiò i costi di realizzazione per consentire ai suoi azionisti di realizzare enormi profitti. Poi corruppe alcuni membri del Congresso, cedendo loro azioni a prezzo scontato, per essere scagionata da una commissione d’inchiesta.

Il secondo fu di natura finanziaria e fu l’esito di una speculazione che il 24 settembre 1869 (il “venerdì nero”) portò alle stelle il prezzo dell’oro, complice un intervento compiacente del segretario del dicastero del Tesoro, George S. Boutwell, che bloccò temporaneamente l’afflusso di questo metallo sul mercato.

Il terzo divenne noto come Whiskey Ring, perché dovuto al fatto che – con la complicità del segretario personale di Grant, Orville Babcock – un gruppo di distillatori di whiskey aveva escogitato un sistema per non pagare le imposte sulla produzione di alcool, evadendo il fisco per alcuni milioni di dollari del tempo.

Il titolo del volume di Twain e Warner espresse in modo sintetico il giudizio dei due scrittori sul periodo compreso tra la fine degli anni Sessanta dell’Ottocento e l’inizio del decennio successivo, una valutazione che gli storici hanno poi esteso nel tempo, fino a includervi tutta l’amministrazione di McKinley.

Il clientelismo politico, per esempio, si radicò ben al di là dei due mandati di Grant alla Casa Bianca, al punto che nel 1881 un altro presidente, il repubblicano James A. Garfield, venne addirittura ucciso da un suo sostenitore deluso di non aver ricevuto la nomina alla carica a cui aspirava in cambio dei presunti servigi prestati durante la campagna elettorale dell’anno precedente.

Un ritorno al futuro

Trump non è certo un nuovo ricco, a differenza dei quattro quinti dei circa 4.000 milionari che vivevano negli Stati Uniti nel 1892. Infatti, soprattutto le iniziative immobiliari del tycoon, secondo alcuni analisti neppure troppo brillanti, sono state rese possibili dal denaro affidatogli prima e lasciatogli poi del padre.

Tuttavia, anche nell’accezione negativa di Gilded Age spiccano le analogie con il presente. È difficile, infatti, pensare a una presidenza americana in cui il conflitto di interesse e la volontà di arricchimento personale dei suoi membri siano meno espliciti che nell’amministrazione Trump.

Durante la prima presidenza, le delegazioni straniere e i lobbisti in visita a Washington soggiornavano al Trump International Hotel della capitale per cercare di ingraziarsi il governo (l’albergo è stato poi venduto dalla Trump Organization nel 2021).

Invece, nel secondo mandato alla Casa Bianca, sulla base di una stima del periodico “The New Yorker”, il tycoon e i suoi familiari potrebbero ricavare profitti dell’ordine di circa 3,4 miliardi di dollari attraverso operazioni immobiliari e finanziarie condotte all’ombra del potere della presidenza soprattutto nei Paesi del Golfo Persico, investimenti in criptovalute (il cui valore si è impennato da quanto The Donald ne ha fatte emettere di proprie – lo $Trump e lo $Melania – e ha inserito il bitcoin nelle riserve strategiche degli Stati Uniti), generosi indennizzi concessi da società spaventate da possibili ritorsioni del governo federale (per esempio, X ha versato a Trump 10 milioni di dollari come risarcimento per aver sospeso il suo account dopo i fatti del 6 gennaio 2021, quando il social network si chiamava Twitter e non era stato ancora acquistato da Elon Musk), commercializzazione di prodotti con il marchio MAGA e accettazione di regali come il Boing 747-8, donato dall’emiro del Qatar, la cui proprietà è destinata a essere trasferita alla Trump Presidential Library Foundation, una organizzazione privata, nel 2029.

Come se non bastasse, secondo il Congressional Budget Office (l’ufficio del Congresso per il bilancio, un’agenzia indipendente dai partiti), il One Big Beautiful Act, la legge finanziaria promulgata il 4 luglio, stabilisce riduzioni delle imposte che permetteranno al 10% di americani più abbienti di risparmiare in media approssimativamente 13.600 dollari ogni anno, mentre i tagli ai programmi di previdenza sociale comporteranno una spesa aggiuntiva di circa 1.200 dollari per il 10% di statunitensi più indigenti.

Inoltre, l’impegno espresso da The Donald lunedì scorso ad abolire il voto per corrispondenza, se effettivamente mantenuto (la costituzionalità di una misura di tal genere è già oggetto di dibattito), andrà a penalizzare soprattutto la partecipazione elettorale dei lavoratori dipendenti che hanno difficoltà a prendere un permesso per recarsi ai seggi (negli Stati Uniti si vota in giorni feriali). Altri provvedimenti, già in vigore, sono finalizzati a ostacolare l’affluenza alle urne degli afroamericani, come avveniva alla fine dell’Ottocento.

Il più contestato, l’Election Integrity Act dello Stato della Georgia, punisce chi offra acqua o altri generi di conforto agli elettori in coda ai seggi. L’obiettivo ultimo della legge – ancorché non dichiarato – è quello di scoraggiare l’esercizio del suffragio da parte dei neri, alla luce del fatto che i tempi medi di attesa per votare sono circa sei minuti nei quartieri residenziali dei bianchi, ma quasi un’ora nei ghetti abitati in maggioranza dagli afroamericani.

Per restare nel campo dei diritti politici, all’inizio del mese, il segretario del dipartimento della Difesa di The Donald, Pete Hegseth, ha condiviso sui social un video in cui si afferma che alle donne non dovrebbe più essere permesso di votare.

Nel complesso, dunque, il passato a cui Trump vorrebbe tornare non è un’epoca di prosperità e di diritti per tutti gli americani, ma un periodo in cui gli Stati Uniti erano dominati, nel campo politico e in quello economico, da una ristretta oligarchia di privilegiati, a scapito di tutto il resto della popolazione.

La differenza più rilevante tra la Gilded Age e l’epoca di Trump consiste forse nella constatazione che allora il presidente degli Stati Uniti era il portavoce, se non addirittura il fantoccio, di tale élite, mentre oggi ne fa lui stesso parte in prima persona.

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STEFANO LUCONI insegna Storia degli Stati Uniti d’America nel dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università di Padova. Le sue pubblicazioni comprendono La “nazione indispensabile”. Storia degli Stati Uniti dalle origini a Trump (2020), Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022 (2022), L’anima nera degli Stati Uniti. Gli afro-americani e il difficile cammino verso l’eguaglianza, 1619–2023 (2023). La corsa alla Casa Bianca 2024. L’elezione del presidente degli Stati Uniti dalle primarie a oltre il voto del 5 novembre (2024).

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