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Scuola: questo non è un Paese per insegnanti, una professione svilita nello status e negli stipendi

Il patto perverso basato sullo scambio “lavorare poco, guadagnare poco” ha rovinato una professione come quella degli insegnanti che ha perso status e potere d’acquisto: il confronto con le retribuzioni degli altri Paesi grida vendetta – Ma gli stipendi possono migliorare solo se cresce la produttività e si afferma la valutazione del merito dei docenti.

Scuola: questo non è un Paese per insegnanti, una professione svilita nello status e negli stipendi

Adesso si sono arrabbiati sul serio, colpiti nel profondo dai provvedimenti restrittivi che ormai da due o tre anni soffocano gli insegnanti, già duramente provati dalla scarsa considerazione di cui sono oggetto, dal disagio che accompagna prestazioni che dovrebbero esser e intellettuali, ma che scivolano irresistibilmente nella routine.

Da Roma a Milano, da Aosta a Palermo migliaia di studenti, docenti, personale Ata, dirigenti e operatori della formazione professionale sono scesi ieri in piazza “contro i nuovi tagli della spending review; per il rinnovo del contratto fermo dal 2009 e la restituzione degli scatti; per modificare la legge sulle pensioni che impedisce l`ingresso di giovani docenti e Ata nella scuola; contro il nuovo concorso inutile e costoso e per un piano di stabilizzazioni che dia certezze al personale docente e Ata incluso nelle graduatorie; contro l’allungamento dell’orario e per chiedere finanziamenti adeguati e certi e investimenti in tecnologie e innovazioni” come recita il comunicato FLC CGIL.

In una certa misura, si può comprendere tanta rabbia, considerando come sia questione nota la condizione non rosee degli insegnanti in Italia. Nei giorni scorsi, il rapporto Eurydice, uno degli studi periodici della Commissione europea, dedicato alle retribuzioni di insegnati e capi di Istituto in Europa, ha brutalmente  snocciolato le cifre:  se in Italia, nel 2011/2012, un insegnante di scuola media italiana guadagna fra un minimo di 24.141  euro lordi all’anno e un massimo di 36.157, i suoi colleghi francesi oscillano fra 23.029 e 41.898, i tedeschi fra 42.873 e 56.864, gli spagnoli fra 33.662 e 47.190, gli inglesi fra 24.430 e 41.594, i belgi fra 25.815 e 44.483. Insomma, per quanto riguarda gli stipendi, gli italiani sono sempre il fanalino di coda dell’Ue.  Peggio di quelli italiani si trovano solo gli insegnanti greci, con uno stipendio che oscilla tra i 15.327 e 27.990.

E’ pur vero che la crisi morde anche altri Paesi. I tagli inflitti dalla troika europea  ai Paesi costretti ad adeguarsi alle misure di austerità in cambio degli aiuti finanziari, hanno portato la Grecia a ridurre del 30% le retribuzioni dei docenti, l’Irlanda del 13% per i nuovi assunti nel 2011 ed ulteriore taglio del 20% per quelli entrati dopo gennaio,  la Spagna e Portogallo del 5%.

La sofferenza tutta italiana, tuttavia, si connota di storici ritardi. Il dilemma tra professionalità e missione ha radici antiche, come ha ricordato Gianfranco Giovannone – autore di un libro del 2005, ma ancora attuale “Perché non sarò mai un insegnante ” – in una bella intervista al “Corriere della sera” di qualche giorno fa. « L’aspetto più incredibile – osserva Giovannone – è la totale impermeabilità dei miei colleghi sulla questione salariale: gran parte di loro, per una tradizione deamicisiana o cattolica, ritiene che insegnare sia una missione molto più vicina al volontariato che non a un’attività professionale e dunque si accontenta. L’abnegazione volontaristica delle “lodevoli eccezioni” finisce per perpetuare l’aura missionaria e l’enfasi vocazionale, grazie alle quali oggi l’insegnamento viene percepito dai ragazzi come una professione finta».

Ma non c’è solo questo. Radici meno antiche e meno nobili ha il patto perverso – al quale i sindacati, che ora tuonano così fortemente, hanno fornito un contributo non irrilevante – che ha sancito il principio di lavorare poco – o comunque non al meglio, osteggiando la valutazione e l’incentivazione del merito – in cambio di guadagnare poco.  I furibondi anatemi contro il  concorso appena bandito sono un corollario di quella subcultura responsabile  del decadimento della figura dell’insegnante. Inoltre, una progressiva “femminilizzazione” della professione non ha portato al settore il contributo e la ricchezza che le donne avrebbero potuto dare, ma solo la residualità di un lavoro fatto spesso per conciliare casa e famiglia.

Nell’immaginario collettivo degli alunni, ma anche delle famiglie, l’insegnamento finisce così per rappresentare una professione in declino, di scarso prestigio sociale, da “sfigati” come dice Giovannone nel suo libro. I dati europei sembrano confermare tutto ciò. Questo non è un Paese per insegnanti.

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