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Musk sfida Trump: ma l’America Party ha qualche chance di successo? Ecco il piano del Ceo di Tesla

L’America Party di Elon Musk vuole diventare l’ago della bilancia al Congresso e spezzare il sostanziale duopolio democratici-repubblicani, ma la normativa statunitense e i precedenti non sono dalla sua parte

Musk sfida Trump: ma l’America Party ha qualche chance di successo? Ecco il piano del Ceo di Tesla

Con il suo tentativo di creare dal niente una formazione di opposizione istituzionalizzata a Donald Trump, dopo il temporaneo connubio con The Donald, Elon Musk è l’ultima personalità, in ordine di tempo, a inseguire la chimera dello spezzare il sostanziale duopolio che il partito repubblicano e quello democratico hanno instaurato nella politica statunitense dalla metà dell’Ottocento.

Il suo neocostituito America Party, infatti, si propone di diventare l’ago della bilancia nel Congresso che verrà eletto nel novembre del prossimo anno, senza escludere a priori la possibilità di assurgere in seguito a forza di maggioranza.

Per il Ceo di Tesla e SpaceX nonché presidente di X (già Twitter), si tratta di una sfida estremamente ambiziosa, rispetto alla quale perfino lo sbarco su Marte sembra un obiettivo meno difficile da realizzare, come hanno ironicamente osservato Reid J. Epstein e Theodore Schleifer sul “New York Times” il 7 luglio.

Il falso bipartitismo statunitense

Si pensa generalmente agli Stati Uniti come a un sistema politico bipartitico. In realtà, non è così. Nelle elezioni presidenziali dello scorso anno, per esempio, insieme al repubblicano Trump e alla democratica Kamala Harris, si sono presentati altri ventidue candidati, non solo aspiranti alla Casa Bianca indipendenti, ma anche rappresentanti di una molteplicità di forze politiche che spaziavano dal Green Party al minuscolo partito socialista dei lavoratori.

Nel complesso, però, queste figure minori hanno ottenuto appena l’1,9% del voto popolare. L’irrilevanza della galassia dei cosiddetti terzi partiti nelle elezioni federali non è stata una novità del 2024.

Dall’inizio del Novecento a oggi, il candidato alla presidenza alternativo a repubblicani e democratici a conseguire il maggior successo in termini di voto popolare è stato Theodore Roosevelt che, nel 1912, raccolse il 27,4%, conquistando appena sei dei 48 Stati che al tempo formavano l’Unione.

Eppure Roosevelt godeva di un’ampia visibilità perché aveva ricoperto due mandati alla Casa Bianca, tra il 1901 e il 1909, per conto del partito repubblicano. I suoi epigoni, molto meno conosciuti a livello nazionale, ricevettero un consenso ancor più limitato.

I candidati meno insignificanti, per quanto riguardava il seguito alle urne, furono il socialista Eugene V. Debbs, che nel 1912 conseguì quasi il 6% del voto popolare, Robert M. LaFollette del partito progressista (stesso nome ma formazione diversa da quella di Theodore Roosevelt) con il 16,6% nel 1924, il portabandiera dello Union Party William Lemke con poco meno del 2% nel 1936, Strom Thurmond del partito per i diritti degli Stati con il 2,4% nel 1948, il progressista Henry A. Wallace con la stessa percentuale e nel medesimo anno, l’ex governatore dell’Alabama George C. Wallace dell’American Independent Party con il 13,5% nel 1968, l’indipendente John Anderson con il 6,6% nel 1980, l’imprenditore Ross Perot prima da indipendente con il 18,9% nel 1994 e poi alla testa del Reform Party con l’8,4% nel 1996, il verde Ralph Nader con il 2,8% nel 2000 e infine Gary Johnson del partito libertario con il 3,3% nel 2016.

Gli intralci normativi ai terzi partiti

Uno dei principali problemi per i candidati dei partiti minori non è tanto il fatto di essere poco noti all’opinione pubblica e di godere pertanto di un consenso potenzialmente limitato. A intralciarli sono piuttosto le norme procedurali per figurare sulla scheda elettorale.

Il plurale è deliberatamente voluto perché, in basa alla Costituzione federale, sono i singoli Stati a essere competenti in materia di elezioni e, dunque, esiste una legislazione differente per ciascuno dei 50 Stati dell’Unione.

Per vedere i propri candidati inseriti sulla scheda elettorale, è necessario che nelle precedenti consultazioni il partito da cui sono stati schierati abbia raggiunto una soglia minima di voti: per esempio, è sufficiente aver ottenuto il 4% dei voti in New Hampshire e il 5% in Illinois e Rhode Island, ma la percentuale sale al 10% in New Jersey, Virginia e Wyoming, mentre è fissata addirittura al 20% in Alabama e in Georgia. In Florida, invece, bisogna che gli elettori del partito in questione risultino almeno il 5% del numero totale dei cittadini iscritti come votanti al 1° gennaio dell’anno in cui si svolgono le consultazioni.

In mancanza di tali requisiti, i candidati o i partiti che li hanno nominati devono raccogliere un numero di firme che è funzione della partecipazione elettorale verificatasi nelle consultazioni più recenti.

In Kansas, ad esempio, occorre che siano pari ad almeno il 2% dei voti espressi nelle precedenti elezioni per il governatore dello Stato, ma devono essere il 10% di quelli che hanno votato per la stessa carica in California. Le stesse misure valgono per i candidati che intendono presentarsi come indipendenti.

Nel loro insieme, queste richieste sono gravose e hanno lo scopo precipuo di arginare la possibile concorrenza di formazioni minori al partito democratico e a quello repubblicano, che non hanno invece problemi a superare le soglie percentuali e controllano attraverso i propri deputati e senatori le assemblee legislative statali che stabiliscono la normativa elettorale.

Per esempio, nel 2024, oltre a Trump e Harris soltanto due altri candidati – Jill Stein del Green Party e Chase Oliver del partito libertario – erano stati in grado di ottemperare alle disposizioni per potersi candidare in un numero di Stati dove in totale erano in palio almeno 270 grandi elettori, la quantità indispensabile per conquistare la Casa Bianca.

Gli altri venti aspiranti alla presidenza erano, invece, destinati comunque alla sconfitta fino dall’inizio della campagna elettorale, dal momento che i pochi Stati in cui ciascuno di loro era riuscito a comparire sulla scheda per il voto non assegnavano complessivamente il numero minimo di grandi elettori per prevalere nel collegio elettorale ed entrare quindi alla Casa Bianca.

Trump e il sostanziale bipartitismo statunitense

Il fatto che le dinamiche per la presentazione delle candidature siano state modellate in maniera da perpetuare l’oligopolio esercitato di fatto dai democratici e dai repubblicani è un aspetto che non è mai sfuggito a Trump.

Al momento del suo ingresso in politica, infatti, a differenza di Perot, The Donald scartò l’ipotesi di correre per la Casa Bianca come indipendente nel 2016 e puntò tutto sull’assicurarsi la nomination di uno dei due maggiori partiti, nello specifico quello repubblicano.

Ha poi seguito la stessa strategia in vista delle elezioni presidenziali del 2024, anche in quei pochi mesi durante i quali le conseguenze dell’assalto dei suoi sostenitori a Capitol Hill il 6 gennaio 2021 e il moltiplicarsi dei capi di imputazione penale nei suoi confronti avevano fatto pensare che fosse in essere un tentativo per ostracizzarlo dal suo stesso partito.

Da Theodore Roosevelt a Perot

Tenendo conto del meccanismo di elezione indiretta del presidente degli Stati Uniti, per cui conta il raggiungimento della maggioranza del voto elettorale anziché quella del voto popolare, a parte l’ormai lontano caso di Theodore Roosevelt, che comunque costituisce un po’ l’eccezione che conferma la regola, i candidati minori di maggior successo sono stati quelli con un marcato seguito regionale.

Sulla base di un programma incentrato sulla difesa della segregazione razziale, Thurmond nel 1948 e George C. Wallace venti anni più tardi, si aggiudicarono rispettivamente 39 e 46 voti elettorali, facendo affidamento sul sostegno dei bianchi razzisti concentrati negli Stati del profondo Sud.

Eppure, a livello nazionale, ricevettero una percentuale di voti popolari inferiore a quella che Perot conseguì nel 1992, quando non conquistò nessun grande elettore e soltanto in due Stati su 50 – il Maine e lo Utah – si piazzò al secondo posto senza venire sopravanzato da entrambi i candidati dei due maggiori partiti nel computo dei voti popolari.

Malgrado la sconfitta, è stato calcolato che Perot, un miliardario texano del settore dell’informatica, avesse speso 65 milioni di dollari della sua fortuna personale per raccogliere le firme necessarie per presentarsi in tutti i 50 Stati dell’Unione e per intentare vittoriose cause giudiziarie là dove qualche funzionario troppo zelante aveva cercato di impedirglielo ricorrendo a cavilli legali.

Perot e Musk

Oltre alle ampie disponibilità finanziarie, esistono altre analogie tra Perot e Musk. Anche Perot aveva tratto lucrosi proventi da commesse del governo federale, era un ex sostenitore del partito repubblicano e soprattutto aveva rotto con il presidente di questo partito dell’epoca, George H. W. Bush, al momento del varo di una legge finanziaria che, secondo le stime, avrebbe accresciuto il deficit del bilancio federale di svariati miliardi di dollari.

In particolare, la campagna elettorale di Perot del 1992 fu incentrata sul ritorno al pareggio nei conti dell’amministrazione federale. Le affinità tra i due magnati, però, finiscono qui. A differenza di Perot, Musk non è un cittadino statunitense dalla nascita e, pertanto, non ha i requisiti costituzionali per poter essere eletto alla presidenza.

Inoltre, almeno in questo momento, la sua strategia per spezzare il sostanziale bipartitismo statunitense comporta un’opera di logoramento ai fianchi nelle elezioni di mid term del prossimo anno e non ancora un attacco frontale nelle presidenziali del 2028.

Il minimalismo di Musk

Le elezioni di mid term sono quelle consultazioni in cui, a metà del mandato del presidente, viene rinnovata l’intera Camera dei Rappresentanti e un terzo del Senato. Il partito repubblicano ha oggi la maggioranza in entrambi i rami del Congresso, ma con un margine limitato: 220 seggi contro 213 alla Camera e 53 contro 47 al Senato.

Inoltre, la compattezza dei suoi ranghi al Senato in appoggio all’agenda legislativa di Trump è labile. Lo si è visto al momento del voto sullo One Big Beautiful Bill, la legge finanziaria fatta proporre da The Donald. Tre senatori repubblicani (Susan Collins del Maine, Rand Paul del Kentucky e Thomas Tillis del North Carolina) si sono schierati con la minoranza dei 45 democratici e dei due indipendenti.

Il provvedimento è stato così varato soltanto perché, in situazioni di parità, il vice presidente degli Stati Uniti, che è ex officio il presidente del Senato, può prendere parte alle votazioni per rompere l’impasse e J.D. Vance lo ha fatto esprimendo il cinquantunesimo voto a favore dello One Big Beautiful Bill.

Il divario contenuto tra i due maggiori partiti offre a Musk un particolare spazio di manovra. Rispetto ai precedenti storici di terzi partiti sorti per puntare alla Casa Bianca, quella dell’America Party è una strategia innovativa per il fatto di avere uno scopo circoscritto e mirato.

Non ha come obiettivo immediato l’ottenimento della maggioranza al Congresso, meno che mai la conquista della presidenza. Si accontenta, invece, di eleggere nel 2026 un pugno di membri della Camera e del Senato che, con il loro voto, possano fare la differenza, in un contesto in cui nessuno dei due maggiori partiti controlli un numero di seggi talmente più alto di quelli dell’altra compagine da essere immune a defezioni come il voltafaccia dei tre repubblicani sullo One Big Beautiful Bill.

Per Musk si tratterebbe, quindi, di individuare alcuni distretti della Camera e qualche Stato con due caratteristiche specifiche: molti votanti indipendenti e una differenza di seguito particolarmente ristretta tra repubblicani e democratici secondo i sondaggi.

Una volta identificatili, vi finanzierebbe la campagna di candidati dell’America Party. In un post su X del 4 luglio, Musk ha espresso l’intenzione di concentrarsi su “2 o 3 seggi del Senato e dalle 8 alle 10 circoscrizioni della Camera”.

Nel suo minimalismo è un progetto che perfino alcuni commentatori conservatori, come Ross Douthat in un editoriale sul “New York Times” del 9 luglio successivo, hanno accreditato di qualche possibilità di successo.

Indipendenti e membri di terzi partiti alla Camera

L’attuale Camera dei Rappresentanti non ha membri indipendenti o affiliati a terzi partiti. L’ultimo indipendente a sedervi è stato Paul Mitchell del Michigan, che però era stato eletto come repubblicano nel 2016 e accompagnò l’abbandono del proprio partito nel 2019 alla rinuncia a ricandidarsi nel 2020.

Un altro deputato del Michigan, Justin Amash, è stato l’ultimo membro della Camera appartenente a un terzo partito, quello libertario. Tuttavia, come nel caso di Mitchell, anche Amash era stato eletto come repubblicano nel 2010 e il cambiamento di casacca coincise con la decisione di non cercare un nuovo mandato nel 2020.

Queste vicende dimostrano anche che non ci sono precedenti recenti di successo da parte di indipendenti o membri di terzi partiti nelle elezioni per la Camera. L’ultima indipendente a conquistare un seggio nel ramo basso del Congresso è stata Jo Ann Emerson nel 1996.

Emerson fu avvantaggiata politicamente dal fatto di essere la vedova del deputato in carica, morto quello stesso anno, il repubblicano Bill Emerson. Inoltre, una volta insediatasi, passò al partito del defunto marito.

Per trovare l’ultimo candidato di una formazione minore a essere eletto alla Camera, William Carney del partito conservatore, bisogna risalire addirittura al 1978, cioè a quasi mezzo secolo fa.

Indipendenti e membri di terzi partiti al Senato

I precedenti relativamente recenti di vittorie di candidati indipendenti o di membri di terzi partiti nelle consultazioni per il Senato sono sporadici e contrassegnati da situazioni particolari.

L’unico senatore che oggi non appartiene a nessuno dei due maggiori partiti è Angus S. King Jr. del Maine, che ha conquistato il seggio nel 2012 e lo ha conservato nel 2018 e nel 2024 contro sfidanti repubblicani e democratici.

Bernie Sanders, che si qualifica come indipendente e si atteggia a socialdemocratico, è stato formalmente eletto al Senato nel 2006 e confermato 2012, 2018 e 2024 quale candidato ufficiale del partito democratico.

Joe Manchin III del West Virginia e Krysten Sinema dell’Arizona si sono dichiarati indipendenti, rispettivamente nel 2023 e nel 2024, dopo avere ottenuto in precedenza un posto al Senato nelle fila del partito democratico. Inoltre, le loro possibilità di una conferma da indipendenti o per un terzo partito si sono rivelate talmente basse che, nel 2024, hanno entrambi deciso di non ricandidarsi.

Nel 2006, dopo essere stato sconfitto nelle primarie democratiche, Joseph Lieberman conseguì il seggio del Connecticut alla testa di una formazione ad hoc chiamata Connecticut for Lieberman. Tuttavia, Lieberman godeva di una vastissima riconoscibilità, in quanto non solo era il senatore in carica dello Stato, ma nel 2000 era stato anche il candidato del partito democratico alla vice presidenza degli Stati Uniti.

La massiccia riconferma di deputati e senatori in carica

L’esperienza di Lieberman concorre anche a segnalare un problema potenziale per l’America Party: l’altissima percentuale di riconferma dei membri della Camera e del Senato che si ripresentano per un nuovo mandato.

Il tasso è stato pari al 97% nelle elezioni del 2024 e addirittura al 98% nelle consultazioni di mid term più recenti, quelle del 2022. Per ovviare a questo ostacolo, l’America Party dovrebbe concentrarsi su Stati in cui il Senatore uscente ha deciso di ritirarsi: il Michigan, dove il democratico Gary P. Peters ha già annunciato di rinunciare a correre per un terzo mandato, e il North Carolina, dove Tillis non si ricandiderà dopo che Trump ha dichiarato di volergli contrapporre uno sfidante nelle primarie repubblicane per vendicarsi del voto contrario allo One Big Beautiful Bill.

La necessità di una leadership carismatica

Nondimeno, l’assenza di sfidanti conosciuti e con una propria base elettorale di partenza non sarà sufficiente di per se stessa a dare all’America Party un vantaggio elettorale.

In passato, il seguito dei terzi partiti è stato legato alla presenza di figure carismatiche a livello nazionale o, per lo meno, regionale. Il partito progressista di Theodore Roosevelt scomparve di fatto dalla scena politica nelle elezioni di mid term del 1914, quando l’ex presidente non era tra i candidati.

I sondaggi accreditavano lo Union Party di almeno il 10% del voto popolare nel 1936, se il suo candidato alla Casa Bianca fosse stato l’estroso senatore Huey Long della Louisiana che, però, fu assassinato prima di scendere in campo. Il suo sostituto, l’incolore e semisconosciuto Lemke, non raggiunse un quinto del sostegno che era stato ipotizzato per Long.

Un notevole ridimensionamento subì l’American Independent Party, dopo che Wallace tornò nell’alveo del partito democratico nel 1970 per farsi rieleggere governatore dell’Alabama. A ulteriore dimostrazione della necessità per le terze forze di disporre di un candidato carismatico, il partito per i diritti degli Stati addirittura si sciolse dopo la sconfitta di Thurmond nel 1948.

Il partito progressista di LaFollette nel 1924 si aggiudicò il solo Wisconsin, di cui il suo fondatore era il senatore in carica dal 1906 dopo esserne stato il governatore tra il 1901 e il 1906, e si sciolse dopo la morte di LaFollette nel 1925.

I pochi esempi di risultati significativi per i terzi partiti nelle elezioni di mid term per il Congresso, quando giocoforza le candidature hanno una dimensione che non travalica gli Stati e non c’è bisogno di un esponente nazionale di spicco, risalgono all’Ottocento: la conquista di un pugno di seggi alla Camera e al Senato da parte del partito populista, espressione di un movimento di protesta agraria, nel 1894 e soprattutto la vittoria di 51 candidati alla Camera del Native American Party, una formazione xenofoba e principalmente anti-cattolica, nel 1854.

Narcisismo e velleitarismo della strategia del peso determinante

Alla luce di tutte le difficoltà indicate, la soluzione ottimale affinché Musk possa effettivamente riuscire a condizionare gli equilibri nel Congresso e acquisire un’influenza concreta sul processo legislativo non pare la creazione di un terzo partito.

Musk dovrebbe, invece, finanziare l’elezione e la conferma di repubblicani critici nei confronti di Trump e creare un blocco di dissenso nei confronti di The Donald all’interno dello stesso partito del tycoon.

Tuttavia, rispetto alla formazione di un terzo partito, l’America Party, attraverso il quale autoinvestirsi del ruolo di demiurgo della politica statunitense, tale forma di pragmatismo non appagherebbe l’egocentrismo di Musk, già messo a dura prova, se non addirittura umiliato, dall’essere stato limitato a sovvenzionare la rielezioni del tycoon per poi venire ignorato nelle decisioni più significative che hanno contraddistinto l’amministrazione Trump (la nomina di Scott Bessent alla carica di segretario del Tesoro invece di Howard Lutnick, il candidato di Musk; la stretta sull’immigrazione, che ostacola l’acquisizione delle competenze di lavoratori stranieri iperqualificati di cui necessita il settore della high tech; il protezionismo doganale, in contrapposizione all’ipotesi di un’area di libero scambio tra America settentrionale ed Europa vagheggiata da Musk; lo One Big Beautiful Bill che, aumentando il deficit federale, farà crescere il costo del denaro, provocando non pochi problemi a un imprenditore che ha edificato il proprio impero grazie a ingentissimi prestiti).

Operare all’interno del sistema dei partiti risulterebbe incompatibile con la sindrome da onnipotenza che accomuna Musk a Trump.

Il rischio, però, è che la discesa in campo dell’America Party finisca per rivelarsi un’iniziativa velleitaria e confermi la definizione che, in tempi non sospetti, il 23 novembre dell’anno scorso, l’autorevole settimanale britannico “The Economist” aveva dato di Musk: non il “commander-in-chief” (il comandante in capo, come viene chiamato il presidente degli Stati Uniti), bensì il “disrupter-in-chief” (lo scombussolatore in capo).

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STEFANO LUCONI insegna Storia degli Stati Uniti d’America nel dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università di Padova. Le sue pubblicazioni comprendono La “nazione indispensabile”. Storia degli Stati Uniti dalle origini a Trump (2020), Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022 (2022), L’anima nera degli Stati Uniti. Gli afro-americani e il difficile cammino verso l’eguaglianza, 1619–2023 (2023). La corsa alla Casa Bianca 2024. L’elezione del presidente degli Stati Uniti dalle primarie a oltre il voto del 5 novembre (2024).

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