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Le Bcc dopo la riforma: tre gruppi e due debolezze

La riorganizzazione del credito cooperativo in tre organismi di vertice (Iccrea, Cassa Centrale Trentina e Cassa Centrale Alto Adige) non risolve i punti critici delle Bcc che sono sia industriali che commerciali e che presentano una governance insostenibile a fronte di una concorrenza interna sempre più pressante

Le Bcc dopo la riforma: tre gruppi e due debolezze

Nelle ultime settimane l’impegno richiesto al Governo, all’industria bancaria e alle autorità di settore per il disinnesco delle crisi di Mps, delle due Venete e di Carige ha distolto l’attenzione dagli sviluppi della riforma del sistema del credito cooperativo che, per dimensione, occupa la terza posizione nella graduatoria delle banche italiane.

Come noto, nel 2016 è stata avviata infatti la riforma delle BCC, funzionale a rafforzare l’intero movimento per non mancare l’appuntamento dell’Unione Bancaria. L’appartenenza  a un  gruppo  bancario  cooperativo è la condizione per esercitare l’attività bancaria in forma di Banca di Credito Cooperativo. Le domande di costituzione dei gruppi bancari cooperativi dovranno essere presentate entro il 3 maggio 2018. Il processo autorizzativo da parte di BCE si avvierà dopo gli Asset Quality Review di tutte le componenti, sui cui esiti non si nascondono le preoccupazioni.

Composto di oltre trecento banche, tre organismi di vertice (Iccrea Banca, Cassa Centrale Trentina e Cassa Centrale Alto Adige) e una pletora di società collaterali centrali e di strutture regionali, il nuovo sistema avrà il fulcro nei tre gruppi indicati e in una complessa serie di atti per assicurare unità di direzione (contratti di coesione) e garanzie di rispetto dei requisiti prudenziali (accordi di garanzia).

Nella tabella, i dati più significativi della sua condizione con riferimento a dicembre 2016 (Fonte Banca d’Italia e Federcasse)

Le criticità del credito cooperativo

Due sono i profili essenziali delle sue criticità.
La prima è di ordine industriale.

Dato che ad una quota di mercato del 7% corrisponde una rete distributiva pari al 15% del sistema e un numero di addetti, che rappresenta il 12% dell’intera forza lavoro bancaria, i caratteri di inefficienza produttiva del sistema cooperativo emergono con evidenza, mettendo in luce come il costo di produzione di ogni unità di prodotto bancario cooperativo sia quasi doppio rispetto alla media del sistema. La rischiosità creditizia delle BCC è superiore di qualche punto, con riferimento sia ai crediti in sofferenza, sia al totale dei deteriorati.

Il rapporto cost-income, assai elevato, si mantiene inferiore al sistema, grazie alla minore percentuale di copertura dei crediti anomali e ad una forbice dei tassi superiore, fattori che assorbono in parte il peso della struttura.

Ne risulta una migliore condizione patrimoniale, cui hanno contribuito i vantaggi fiscali, di cui il sistema cooperativo ha da sempre goduto.Infine, si ha motivo di ritenere che oltre un terzo delle BCC versi in condizioni di criticità individuale.

Partendo da questa situazione, la formazione di due gruppi bancari cooperativi (il terzo è previsto dalla legge) non può che indebolire la situazione, perché richiederà risorse aggiuntive per il patrimonio del secondo gruppo, che dovrà anche investire in strutture centrali per il suo funzionamento. Inoltre, dalla divisione in due si perderanno possibili economie di scala. Anche gli investimenti in tecnologia saranno duplicati.

Il costo di due gruppi potrebbe essere pertanto non sostenibile. La certezza di questa affermazione non potrà che venire dai relativi piani industriali, tuttora non resi noti. Ma gli indizi ci sono già tutti.

Il secondo profilo di criticità riguarda le strategie commerciali, da sviluppare in un contesto concorrenziale in via di profonda e rapida modificazione.

Il mercato del credito e del risparmio delle famiglie e delle piccole e medie imprese è infatti esposto ad una crescente contendibilità.

Banca Intesa, ha raddoppiato la propria presenza in Veneto e in Sicilia, assorbendo le attività delle due banche venete fallite e, come Unicredito, ha da tempo costituito una propria divisione territoriale. Il Mps, dopo il salvataggio, ha dichiarato che imposterà il proprio piano industriale puntando al mercato retail, nelle regioni di più tradizionale insediamento.

Ubi ha assorbito banche con spiccata vocazione territoriale, una volta alleggerite dei cospicui crediti anomali (Banca Marche, Banca Etruria, Carichieti), e ha già avviato politiche attive sui nuovi territori e così ha fatto Bper, con Cariferrara, mentre si appresta a fare altrettanto Cariparma, del gruppo Credit Agricole, una volta rilevate le Casse di Risparmio di Cesena, di Rimini e di San Miniato. Il processo di consolidamento farà compiere scelte di accentramento decisionale e di razionalizzazione organizzativa a tutti i gruppi impegnati ad integrare nelle loro strutture la loro rafforzata proiezione locale.

La riforma del credito cooperativo, che andrà presumibilmente a regime non prima della fine del 2018, troverà quindi una situazione completamente diversa da quella in essere al momento del suo avvio e della scelta del modello aggregativo tramite il gruppo bancario cooperativo, avvenuta solo nel 2016.

Il credito cooperativo sarà anche esposto ad una concorrenza interna, date le molte sovrapposizioni territoriali tra le bcc che aderiranno al gruppo Iccrea ovvero al gruppo Trentino. La contesa per strapparsi reciprocamente aderenti spacca già in due molte regioni importanti, come Lombardia, Veneto ed Emilia, secondo scelte individuali che non sembrano compiersi in base a differenze d’ordine strategico.

Non sembri azzardato parlare di una contesa, senza benefici per chicchessia, salvo rinverdire le tenzoni medievali dei guelfi e dei ghibellini. Anche da parte delle Autorità andrebbero spiegati meglio i vantaggi che dovrebbero derivare da questa bipartizione.

Ma vorremmo andare avanti con la nostra riflessione, spiegando perché nemmeno la scelta di un solo raggruppamento, fondato sulle attuali regole, potrebbe dare sufficienti garanzie di rafforzamento.

Basti il fatto che la riforma basata sul contratto di coesione manterrà una struttura di governance complessa e costosa, in controtendenza con l’azione di razionalizzazione di tutti gli altri gruppi bancari. Si pensi soltanto al fatto di mantenere pressoché inalterata la pletorica configurazione degli organi sociali (amministratori, sindaci, direzioni generali), stimati al momento in non meno di 5000 posizioni. Nessun altro gruppo bancario, nemmeno il più grande,  ha un simile costo di governance.

Noi non conosciamo le riflessioni in corso presso le Autorità di vigilanza europee, ma siamo certi che il criterio della sostenibilità del modello, nel contesto del mercato italiano, sarà una discriminante essenziale.

Una proposta

Non crediamo di commettere sacrilegio se proponiamo di riflettere, seppure in astratto, stante la legge di riforma approvata soltanto l’anno scorso dal Parlamento italiano, su un’alternativa, che punti a un livello di accentramento organizzativo simile a quello delle banche italiane concorrenti, mirando a conservare i caratteri propri della cooperazione,

Riteniamo che, così facendo, si possa mantenere non solo una linea di continuità con la storia del movimento, ma anche potenziare lo sfruttamento dei vantaggi competitivi di una configurazione capillare, secondo nuove modalità.

Si dovrebbe aprire ad una nuova visione della economia sociale cooperativa, di cui vi è crescente domanda nella, assicurando sufficienti caratteri di tenuta economica del sistema.

Si tratterebbe di conferire ad una sola Banca gli asset di tutte le Bcc, ottenendone in cambio una partecipazione proporzionale al capitale. Pur perdendo la qualifica di banca, esse potrebbero estendere il proprio raggio di azione a finalità socio-economiche ancora più ampie dell’esercizio del banking cooperativo.

Le società cooperative continuerebbero infatti ad avere radicamento nei territori di origine e le basi sociali manterrebbero i diritti di proprietà sul patrimonio della cooperativa.

Oltre a svolgere il ruolo di azionisti della Banca della Cooperazione Italiana (non sarebbe un nome appropriato?), esse potrebbero sviluppare proprie autonomie, stabilendo politiche autonome per assistere al meglio i territori con servizi aggiuntivi, che potrebbero essere di natura professionale, ovvero sanitari, assistenziali,  assicurativi, culturali, da rivolgere in prevalenza ai soci, ma anche ad altri utenti.

Quanto ai primi, si potrebbe puntare sull’assistenza tecnica a categorie economiche, quali, ad esempio, gli agricoltori, per aiutarli nelle scelte da compiere per una più rapida modernizzazione delle attività. Si pensi alla diffusione di nuove tecniche colturali (biologiche, di precisione, etc.) e di commercializzazione (filiere corte e a chilometro zero), alle pratiche comunitarie per l’acquisizione di contributi pubblici, agli incentivi per accrescere la produzione di energie alternative e il rispetto dell’ambiente. Altri esempi possono essere facilmente prefigurati.

Quanto alla seconda tipologia di servizi, si tratterebbe di sviluppare quelli di assistenza alla persona e alle famiglie, contribuendo, sussidiariamente, ad un welfare che lo stato ha sempre più difficoltà a fornire da solo.

Le economie di scala e di rete tra le cooperative potrebbe far collocare questi servizi con efficienza ed equità.

Altri campi di sviluppo sono i progetti di inclusione sociale e finanziaria e lo studio per nuove forme di socialità digitale, come le smart communities.

Quanto ai mezzi necessari per rendere possibili queste attività potrebbe prevedersi che gli immobili delle singole BCC restino nella proprietà delle Cooperative originarie le quali potrebbero percepire gli affitti per l’utilizzo funzionale a uffici della banca.

Potrebbero rimanere nel compendio delle cooperative scorporanti anche altri asset reali o finanziari, tra cui una parte degli stessi crediti in sofferenza, i cui ricavi o realizzi poi faggiungersi alle fonti di reddito dei dividendi da partecipazione.

Le nuove attività delle cooperative potrebbero anche consentire l’assorbimento di parte del personale, che si renderà eccedentario nel mondo del credito cooperativo.

La governance di queste cooperative dovrebbe essere espressione di volontariato, con costi praticamente ridotti a riconoscimenti simbolici.

La nuova Banca della Cooperazione Italiana, che potrebbe aprire il proprio capitale anche al mercato, avrebbe fin da subito la dimensione per essere concorrenziale, con una rete distributiva estesa a tutto il territorio nazionale, secondo indirizzi definiti, coordinati e controllati da una Direzione Generale centralizzata. La migliore condizione patrimoniale, da utilizzare per investimenti d’ordine tecnologico (una sola piattaforma informatica, in luogo delle otto oggi esistenti) e d’ordine commerciale con lo sviluppo di nuovi prodotti e servizi bancari (per esempio, la più capillare diffusione di pagamenti elettronici), continuerebbe ad essere edificata su una rete di oltre due milioni di soci/clienti.

Conclusioni

Si deve riconoscere che non ci sono più le condizioni per la dispersione di risorse, in nome di asserite differenze tra gruppi o per la conservazione di costose e anacronistiche forme di autonomia bancaria

Le regole dell’efficienza economica sono uguali per tutti, mentre quelle della diversità socio culturale, su base no profit e solidaristica, possono essere sviluppate e con modalità del tutto nuove da chi ne ha fatto da sempre la propria missione. Questo è il vantaggio che credito cooperativo deve saper sfruttare, evitando il rischio che si perda il motivo stesso dell’appartenenza cooperativa che, sempre divenendo sempre più onerosa per i suoi stessi soci, arrivi fino a fagocitare se stessa.

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