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Trump, i dazi e il caos globale: solo un’Unione europea davvero unita può resistere. Intervista al diplomatico americano Peter Chase

INTERVISTA A PETER CHASE, diplomatico e già direttore dell’ufficio del Dipartimento di Stato americano per gli affari con la Ue. I dazi sono un pilastro dell’amministrazione Trump ma “le sue tariffe sono una nuova tassa che graverà sulle imprese americane”. “Non bisogna aspettarsi un ritorno allo status quo”. Quali scenari nelle relazioni tra Usa, Cina ed Europa

Trump, i dazi e il caos globale: solo un’Unione europea davvero unita può resistere. Intervista al diplomatico americano Peter Chase

Gli annunci intermittenti della nuova politica commerciale degli Usa hanno destabilizzato l’economia e i mercati finanziari globali per qualche settimana. Le imprese italiane ed europee, soprattutto quelle più internazionalizzate ed inserite nelle catene globali della produzione, si stanno riorganizzando per assorbire l’ennesimo shock che arriva non dall’economia ma dalla (geo)politica. Per la parte più strettamente collegata agli investimenti, in casa e all’estero, alla manifattura europea serve però un “punto di arrivo” sulle tariffe che Stati Uniti e Unione europea si applicheranno a vicenda.

Dietro la parte politica e governativa, a “sbrogliare” e a mettere ordine rispetto alle decisioni dei leader ci sono i super-negoziatori, i tecnici che devono far collimare l’irruenza dei leader e il realismo dei dossier economici e commerciali. Il diplomatico statunitense Peter Chase è senior fellow dell’ufficio di Bruxelles dell’influente German Marshall Fund (Gmf), con un passato di vicepresidente per l’Europa della U.S. Chamber of Commerce dal 2010 al 2016 e soprattutto di direttore dell’ufficio del Dipartimento di Stato americano per gli affari dell’Ue.

Mr. Chase, qual è la sua visione rispetto a quello che sta succedendo?

“Il presidente Trump ritiene che i precedenti presidenti americani abbiano aperto il mercato statunitense per un “ipotetico vantaggio geopolitico” – così si esprimeva il primo documento di politica commerciale del 2017 – a scapito dei lavoratori americani. Gli stranieri ne avrebbero “approfittato”, come dimostrano i loro surplus commerciali. Trump vede la Cina e l’Unione europea come i peggiori responsabili proprio perché sono quelli con i surplus più ampi. Ritiene che gli accordi internazionali alla base di questa apertura siano intrinsecamente difettosi, e per questo li ignora del tutto, preferendo la forza alle regole condivise. Questa disponibilità a violare impegni internazionali consente a Trump di utilizzare i dazi per far “pagare agli stranieri” la reindustrializzazione degli Stati Uniti”.

A fasi alterne, incredibilmente ravvicinate, l’Amministrazione Trump cambia i target e la possibile intensità delle tariffe.

“In questo senso, è probabile che la sua Amministrazione mantenga un dazio base molto più elevato rispetto al passato per tutti i beni provenienti da qualsiasi paese. Credo anche che manterrà i dazi per motivi di sicurezza nazionale su acciaio e alluminio, automobili e componenti auto, semiconduttori e farmaci (oltre ad altri prodotti come rame e legname), che coprono una parte rilevante del commercio Usa-Ue. Quindi, anche se Trump ha fatto marcia indietro su alcune minacce tariffarie, ha tutta l’intenzione di costruire un muro attorno al mercato americano. E mentre pensa che siano gli stranieri a pagare i dazi, a pagarli in realtà saranno gli importatori. Le sue tariffe sono una nuova tassa che graverà sugli americani, in particolare sulle imprese statunitensi”.

C’è una strategia precisa da parte statunitense o sono possibili retromarce tattiche rispetto alla grande tensione diffusa tra gli operatori economici?

“Trump e il suo team credono di avere una strategia commerciale coerente, fatta di dazi e altre misure per “proteggere” i lavoratori americani, rilanciare la manifattura e costringere paesi e aziende a determinati comportamenti. Purtroppo, stanno scoprendo che la realtà è più complessa. Un produttore che non ha accesso anche a un solo componente critico può essere costretto a fermare la produzione, e molti di questi componenti essenziali provengono dall’estero. Questo è uno dei motivi per cui il deficit commerciale Usa è aumentato nel primo trimestre per poi calare bruscamente: le aziende hanno accumulato scorte per proteggersi da un governo sempre più arbitrario. La volatilità dei mercati azionari è un’altra conseguenza. Tuttavia, dubito che questi costi tangibili bastino a dissuadere Trump. Non bisogna aspettarsi un ritorno allo status quo ante, anche se forse l’imprevedibilità potrebbe ridursi”.

Gli Stati Uniti sono pronti alla rivoluzione tariffaria di Trump?

“No, è questo il punto. Pochi comprendono la complessità delle catene di approvvigionamento del settore privato e quanto siano fondamentali le importazioni per la produzione interna. Ridurle arbitrariamente porterà solo alla chiusura di molte fabbriche e alla disoccupazione forzata. Le importazioni non sono un ‘male’ e non c’è alcuna ragione valida per non utilizzarle”.

Quali sono i settori economici che decideranno la riconfigurazione dei rapporti commerciali transatlantici?

“Il rapporto economico tra Stati Uniti e Ue è unico, basato più sugli investimenti che sul commercio. Le imprese americane hanno investito oltre 2.600 miliardi di dollari nell’Unione, quelle europee hanno investito più di 2.400 miliardi negli Stati Uniti. Oltre la metà dei 1.300 miliardi di dollari di scambi tra le due sponde dell’Atlantico avviene all’interno delle stesse multinazionali. Questi investimenti riguardano tutti i settori, compreso l’agroalimentare: ad esempio, un’azienda irlandese è tra i maggiori produttori di formaggio negli Usa. È anche per questo che la politica commerciale di Trump è così fuorviante”.

L’inasprimento commerciale tra Usa e Ue potrebbe avvicinare nuovamente, magari in forme diverse, l’Europa alla Cina sul piano economico?

“Il rapporto economico transatlantico è trainato dal settore privato, non dai governi. Rimarrà forte proprio perché si basa sugli investimenti, non solo sul commercio. Detto questo, imprese e governi stanno iniziando a mettere in dubbio l’affidabilità del governo Usa e la coerenza delle sue politiche. Cercheranno naturalmente di rafforzare i legami con altri paesi, tra cui la Cina. Tuttavia, anche Pechino può essere ‘capricciosa’, sia nella politica estera che in quella economica. L’approccio dell’Ue, che considera la Cina al tempo stesso partner, concorrente e rivale sistemico, è corretto. Molti suggerirebbero di aggiungere anche “minaccia alla sicurezza”, visto il sostegno più o meno palese di Pechino all’invasione russa dell’Ucraina e i suoi sforzi per proiettare potere militare in Asia. Finché questo non cambia, è difficile prevedere un miglioramento strutturale dei rapporti Ue-Cina”.

Secondo lei, fino a quale livello di rottura con gli alleati storici, in primis gli europei e i partner Nato, è pronto ad arrivare Trump?

“Trump non vuole una rottura con gli alleati. Vuole che paghino di più. Non solo per la difesa, ma anche per sostenere economicamente l’America. Secondo lui, una nazione reindustrializzata è la difesa più efficace contro ogni minaccia. Ma va ricordato che Trump distingue tra “paesi europei e partner Nato” e l’Unione europea. Detesta l’Ue perché sa che i paesi europei uniti hanno più potere. Senza l’Ue, anche il paese europeo più forte sarebbe costretto a seguire la linea di Washington. L’Unione europea, invece, può opporsi”.

La centralità del “modello americano” in economia, nelle scelte strategiche valutarie, nel soft power, potrebbe declinare in tempi inaspettatamente rapidi?

“Sì e questo è un altro punto fondamentale. Distruggere ciò che ha richiesto anni per essere costruito è sorprendentemente facile. Molte cose che apprezziamo si basano sulla fiducia, e la fiducia può svanire in un attimo. Questo potrebbe essere uno dei principali costi dei cambiamenti bruschi introdotti da Trump e temo che lui non ne colga appieno le conseguenze. La fiducia è particolarmente cruciale in ambito finanziario: gli investitori stranieri detengono 33 mila miliardi di dollari in attività finanziarie americane, inclusi 9 mila miliardi in titoli del debito pubblico. Investire negli Stati Uniti ha senso perché sono il mercato più “profondo” e sviluppato al mondo, e perché vige la certezza del diritto. Se per qualche motivo dovessero dubitare di ciò, potrebbero cominciare a vendere. E gli eventi finanziari possono precipitare molto rapidamente”.

Come cambieranno le relazioni internazionali dei prossimi anni?

“Abbandonando gli impegni assunti dal proprio paese nel quadro del diritto internazionale, Trump sta di fatto cercando di riportare il mondo a una logica di potenza anziché di regole. Paradossalmente, e tristemente, anche Russia e Cina sembrano preferire un mondo dove la loro forza non è limitata dal diritto. Per l’Ue, nata dal diritto internazionale, questa è una minaccia esistenziale. E credo che molti altri paesi non accettino volentieri l’idea di farsi dire cosa fare da potenze dominanti”.

Con quali conseguenze?

“Una conseguenza positiva del caos generato da Trump potrebbe essere che l’Ue collabori con altre “potenze intermedie” per ricostruire l’ordine giuridico globale, inclusa una riforma del Wto. Così come i paesi europei sono più forti dentro l’Ue, anche gli stati più piccoli sono più forti in un mondo fondato su regole stabili e giuste. Le potenziali alleanze sono molte: Regno Unito, Norvegia, Svizzera, Canada, Messico, Brasile, Giappone, Corea, Taiwan, Australia e altri. Servirà un lavoro diplomatico, ma l’Ue e i suoi partner ne sono perfettamente capaci”.

Oltre a scenari di recessione globale e di incertezza cronica sui mercati, qual è il rischio principale nell’ordine internazionale che vede profilarsi?

“Non bastano già questi? Siamo già immersi in guerre terribili e costose: l’invasione russa dell’Ucraina, i conflitti in Medio Oriente e in Africa. Troppi altri ‘focolai’ di tensione esistono e altri potrebbero nascere con il cambiamento climatico. Potremmo fare moltissimo per alleviare le sofferenze umane e migliorare le condizioni di vita ovunque, se non fossimo ossessionati dal rendere i nostri paesi ‘grandi di nuovo’ a spese degli altri”.

La Cina sembra reagire in modo felpato dal punto di vista della comunicazione ma sta approntando contromosse significative su tariffe, esportazioni di materie prime, movimenti sui mercati dei capitali. Le principali economie del mondo sono destinate a riconsiderare il loro rapporto con la Cina da qui in avanti?

“È comprensibile che la Cina non si lasci intimidire da Trump. Il fatto che stia preparando contromisure non è, di per sé, una ragione per rivedere i rapporti economici strategici con Pechino. Paesi e imprese avrebbero sempre dovuto avere una visione realistica. La Cina è diventata un enorme mercato e molte aziende estere ne hanno tratto beneficio. Ma a caro prezzo, spesso perdendo tecnologia a favore di concorrenti cinesi. Pechino ha cominciato da tempo a “strumentalizzare” la dipendenza altrui, come dimostrato dal blocco delle esportazioni di terre rare verso il Giappone nel 2010, e più recentemente con Lituania e Australia, senza dimenticare il supporto economico e tecnico alla Russia nella guerra in Ucraina. Dunque, è giusto continuare a commerciare con la Cina, ma con consapevolezza e cautela. I benefici esistono, ma anche i rischi. Un imprenditore saggio non sarà mai eccessivamente dipendente da fornitori in un paese il cui governo ha già dimostrato di poter interrompere i rapporti commerciali a suo piacimento”.

Ultima domanda sul cuore dell’Europa: come valuta la prospettiva di un riarmo della Germania, che avverrà in un clima di ritorno al protezionismo, con inoltre spinte estremiste all’interno del Paese si stanno stratificando anno dopo anno?

“Non sono preoccupato dal riarmo tedesco, soprattutto perché avviene nel contesto di un’Europa unita che vuole essere un attore globale forte. In questo contesto, non è solo una questione di “riarmo tedesco”: è e deve essere visto come un contributo tedesco ad una strategia difensiva europea coordinata e coerente”.

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