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Trump tra il fantasma della lista Epstein e il controllo dell’Fbi: come il tycoon piega la giustizia ai suoi interessi

Trump, Epstein e il valzer delle verità: il tycoon prima brandisce i dossier del caso in campagna elettorale, poi li liquida come fake news quando rischiano di coinvolgerlo. Nel frattempo, piega Giustizia e Fbi ai propri scopi, tra vendette, licenziamenti e complotti post-verità

Trump tra il fantasma della lista Epstein e il controllo dell’Fbi: come il tycoon piega la giustizia ai suoi interessi

Le giravolte di Donald Trump sulla questione dei file di Jeffrey Epstein e sui suoi rapporti con il miliardario condannato per abusi sessuali e traffico internazionale di minorenni non dimostrano solo la caparbietà di The Donald nel cambiare le proprie posizioni a seconda delle esigenze personali del momento. Per esempio, il tycoon ha sfruttato i presunti dossier in campagna elettorale per procacciarsi qualche voto in più, ma ora li liquida come una bufala perché vi figurerebbe pure il suo nome.

Queste piroette attestano anche come, per salvaguardare i propri interessi, il presidente intenda prevaricare sulle istituzioni federali preposte alle pratiche giudiziarie e incaricate di condurre indagini su reati penali a livello nazionale – rispettivamente il dipartimento della Giustizia e il Federal bureau of investigation (Fbi) – fino al punto da metterle l’una contro l’altra.

Così, nei giorni scorsi, abbiamo assistito a un vero e proprio scontro tra Pam Bondi, il procuratore generale (l’analogo del ministro della Giustizia di un Paese europeo), e Dan Bongino, il vicedirettore dell’FBI: la prima ha negato l’esistenza della famigerata lista di coloro che l’avvocato Niccolò Ghedini avrebbe forse chiamato gli utilizzatori finali delle ragazze di Epstein, mentre il secondo ha da sempre giurato sulla reale presenza di un tale elenco quale prova regina del dispiegamento di una vasta cospirazione che avrebbe utilizzato la pedofilia per ricattare esponenti politici e altre personalità statunitensi.

Quella di Bongino rischia di essere la prossima testa a cadere in un contesto di obbligo sempre più palese per i funzionari federali di allinearsi alle posizioni del presidente.

La normalizzazione del dipartimento della Giustizia

Gli strascichi trumpiani della vicenda di Epstein rappresentano solo il caso più recente e paradigmatico dei tentativi di The Donald per piegare le iniziative del dipartimento della Giustizia al proprio volere allo scopo di mettere fuori gioco i propri avversari politici.

In particolare, fino dal momento della sua sconfitta nelle elezioni presidenziali del 2020, Trump ha espresso la volontà di punire coloro che, nella sua personalissima narrativa, avrebbero ordito una congiura per far vincere il suo sfidante democratico, Joe Biden.

Una volta reinsediatosi nello Studio Ovale, The Donald ha avuto la possibilità di intraprendere i suoi piani di vendetta. Non a caso, ai vertici del dipartimento della Giustizia ha collocato alcuni suoi fedelissimi che stanno agendo più da giustizieri che da giuristi.

Alla carica di procuratore generale ha nominato Pam Bondi, già componente del suo collegio di difesa al tempo del primo impeachment (quello riguardante il cosiddetto Ucrainagate), che, in seguito alle incriminazioni di The Donald per l’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021 e per i documenti top secret portati nella magione di Mar-a-Lago aveva più volte affermato che gli inquirenti avrebbero dovuto essere a loro volta inquisiti.

Per il posto di vice procuratore generale Trump ha scelto Todd Blanche, che aveva difeso il tycoon nel processo in cui fu condannato per aver comprato il silenzio dell’attrice pornografica Stephanie Gregory, in arte Stormy Daniels, su una loro relazione.

Così, tra la fine di gennaio e quella di giugno, il dipartimento della Giustizia ha proceduto a licenziare i procuratori, non solo quelli assunti in prova ma anche quelli di ruolo, che avevano collaborato a vario titolo con Jack Smith, il titolare dell’indagine federale sul tentativo di Trump di rovesciare l’esito delle elezioni presidenziali del 2020, poi archiviata con il ritorno di The Donald alla Casa Bianca.

Trump e i direttori dell’Fbi

È, però, sull’Fbi che Trump ha calcato maggiormente la mano, come risulta evidente dal trattamento dei direttori dell’agenzia.

Al momento della sua rielezione alla presidenza, il 5 novembre 2024, il capo dell’Fbi era Christopher A. Wray, nominato dallo stesso tycoon nel 2017 al posto di James Comey, che The Donald aveva destituito perché non aveva bloccato le indagini su Michael Flynn, accusato di avere avuto contatti non autorizzati con l’ambasciatore russo a Washington prima di assumere la carica di consigliere per la sicurezza nazionale di Trump.

I rapporti tra il tycoon e Wray, però, si erano rapidamente deteriorati. Il presidente gli aveva contestato di non aver preso le sue difese in pubblico con adeguata energia al tempo dell’inchiesta sulle possibili ingerenze russe nella campagna elettorale del 2016 che aveva portato Trump alla Casa Bianca. Inoltre, Wray aveva bollato come una forma di “terrorismo interno” l’irruzione dei sostenitori del tycoon a Capitol Hill il 6 gennaio 2021.

Infine, per Trump, Wray era il principale responsabile della perquisizione che aveva portato al rinvenimento di documenti top secret nella villa di Mar-a-Lago dopo che The Donald aveva concluso il suo primo mandato.

In tal modo, agli occhi del tycoon e dei suoi sostenitori Wray era divenuto uno dei simboli del deep state, la presunta coalizione di burocrati e dirigenti dell’amministrazione federale volta a impedire l’attuazione del programma trumpiano. Così, nel periodo della transizione tra l’amministrazione Biden e l’inizio della propria presidenza, The Donald aveva espresso ripetutamente l’intenzione di licenziare anche Wray.

Sebbene il mandato del direttore dell’Fbi sia per legge di dieci anni e Wray avesse più di due anni e mezzo davanti a sé, questo aspetto stava importando molto poco al tycoon che, del resto, si era già sbarazzato di Comey senza farsi troppi scrupoli per la normativa vigente.

Pertanto, memore di questo precedente e per prevenire possibili scontri istituzionali, Wray annunciò che si sarebbe dimesso il giorno del passaggio delle consegne tra Biden e Trump, promessa che poi mantenne.

Entra in scena Kash Patel

Al posto di Wray, The Donald ha nominato Kash Patel, già membro del National Security Council durante la sua prima amministrazione e per poche settimane capo di gabinetto del segretario della Difesa tra la fine di novembre del 2020 e l’insediamento di Biden.

Il personaggio, però, era noto soprattutto per avere sostenuto che Trump avesse desecretato i documenti rinvenuti a Mar-a-Lago e quindi non avesse commesso alcun reato nel conservarli a casa dopo la conclusione della sua prima presidenza nonché per avere creato una fondazione specifica con la finalità di aiutare a pagare le spese legali agli assalitori di Capitol Hill che erano stati incriminati per la tentata insurrezione del 6 gennaio 2021.

Nel corso delle audizioni al Senato per la conferma a capo dell’agenzia Patel aveva dichiarato che “tutti i dipendenti dell’FBI sarebbero stati tutelati contro rappresaglie politiche”. Eppure, una volta a capo dell’FBI, è diventato l’esecutore delle vendette di Trump, in ottemperanza alla posizione del tycoon, secondo cui l’agenzia aveva al proprio interno “very bad people” (gentaglia) e si era trasformata in un’arma politica al servizio dei democratici.

Infatti, avvalendosi del proclama presidenziale emesso il 20 gennaio di quest’anno, con il quale Trump ha graziato centinaia di assaltatori del Campidoglio e ha definito la loro condanna o la loro incriminazione “una grave ingiustizia nazionale perpetrata ai danni del popolo americano negli ultimi quattro anni”, l’Fbi ha licenziato numerosi agenti che avevano condotto le indagini sul tentativo di impedire la proclamazione formale della vittoria di Biden nelle elezioni del 2020.

In particolare, prima ancora che il Senato confermasse la designazione di Patel alla guida dell’agenzia, perse il posto David Sundberg, il capo dell’ufficio dell’Fbi di Washington. Altri quattro agenti di grado elevato dello stesso ufficio furono spinti ad andare in pensione con effetto immediato.

Patel ha anche riformulato l’ordine delle priorità dell’agenzia che, da qualche mese, sembra essersi concentrata soprattutto a raccogliere prove a supporto di alcune teorie cospiratorie care a una parte dei sostenitori trumpiani: l’ipotesi, destituita di ogni fondamento, che l’allora presidente democratico Barack Obama abbia cercato di alterare le fonti di intelligence per insinuare il dubbio che la vittoria del tycoon nel 2016 non fosse legittima e la tesi che la Repubblica Popolare Cinese abbia manipolato in qualche modo il risultato delle elezioni del 2020 per consegnare la Casa Bianca a Biden.

Nei mesi successivi all’entrata in carica di Patel, l’FBI ha perduto altri agenti che hanno preferito dimettersi perché non condividevano il nuovo orientamento dell’agenzia.

Il futuro dell’FBI secondo Trump

Lo scorso 20 luglio Trump ha diffuso su Social Truth un video, creato con l’intelligenza artificiale, che mostrava l’arresto di Obama da parte di agenti dell’FBI nello Studio Ovale sotto lo sguardo compiaciuto di Trump.

Si è trattato non solo di una finzione di pessimo gusto, in quanto pareva reiterare in chiave postmoderna lo stereotipo razzista dell’afroamericano messo in catene dal padrone bianco, come ai tempi in cui la schiavitù era legale negli Stati Uniti.

Il filmato sembrava anche e soprattutto uno spot intimidatorio e programmatico riguardante le future operazioni dell’FBI: dare la caccia agli oppositori politici di The Donald.

Il pregresso dell’FBI come strumento di lotta politica

L’uso dell’FBI a fini politici non rappresenta una novità introdotta dall’amministrazione Trump.

L’agenzia sorse ufficialmente nel 1935, nell’ambito del dipartimento della Giustizia, con il compito specifico di “proteggere il popolo americano e di applicare la Costituzione”, obiettivi molto più estesi del preesistente e quasi omonimo Bureau of Investigation, che si era occupato principalmente di contrasto allo sfruttamento della prostituzione dal 1910 e di perseguire i contrabbandieri di alcolici durante il proibizionismo (1920-1933).

Però, il suo primo direttore, J. Edgar Hoover, mise in piedi un articolatissimo sistema di dossieraggio che gli permise di raccogliere informazioni compromettenti su un gran numero di esponenti politici, compresi probabilmente i presidenti John F. Kennedy e Richard M. Nixon, delle quali si avvalse per restare in carica fino alla morte, avvenuta il 2 maggio 1972.

Oltre che per combattere il crimine, Hoover si servì dell’FBI pure per tentare di screditare personalità scomode per il governo e i diversi presidenti in carica. In particolare, si accanì contro alcuni leader della comunità nera in un periodo in cui gli afroamericani stavano ancora lottando per superare la segregazione e la discriminazione razziale soprattutto negli Stati del Sud.

Per esempio, nel pieno della Guerra Fredda, fece condurre intercettazioni telefoniche e ambientali nei confronti del leader del movimento per i diritti civili, il pastore battista Martin Luther King Jr., alla ricerca di prove che fosse un agente al soldo dell’Unione Sovietica.

Non avendole trovate perché non esistevano, utilizzò le informazioni sulle relazioni extraconiugali di King per tentare di indurlo, senza riuscirci, a ritirarsi a vita privata o addirittura a suicidarsi per non subire l’onta di essere additato all’opinione pubblica come un leader religioso sposato che frequentava prostitute. Dopo l’assassinio di King, avvenuto il 4 aprile 1968, Hoover riorientò il Counter Intelligence Program contro le organizzazioni afroamericane.

Questo programma di controspionaggio interno era stato allestito negli anni Cinquanta per indagare sulle infiltrazioni di spie comuniste negli Stati Uniti. Tuttavia, Hoover se ne avvalse in modo del tutto illegale per impedire l’emergere di un’altra figura carismatica afroamericana a livello nazionale.

Prese di mira soprattutto Stokely Carmichael, considerato un potenziale nuovo “Messia” nero, e fece diffondere falsi documenti che lo identificavano come informatore dell’FBI con la speranza, rivelatasi poi vana, che i suoi compagni lo ritenessero un traditore e lo uccidessero.

Invece, nel 1969, con metodi analoghi, l’agenzia riuscì a fomentare un contrasto tra il Partito delle pantere nere e i membri di un altro gruppo di radicali afroamericani, la Us Organization, che portò quest’ultima ad assassinare due esponenti della prima formazione, John Huggins e Alprentice “Bunchy” Carter.

Inoltre, tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo, Hoover coadiuvò Nixon per sorvegliare i suoi avversari politici, non certo dei criminali ma dei semplici critici della politica del presidente.

Tuttavia, in seguito alla morte di Hoover e dopo che lo scandalo del Watergate travolse Nixon costringendolo alle dimissioni, l’FBI si è sempre più resa indipendente e meno condizionabile dalla Casa Bianca.

In questo contesto, una legge del 1968 ha stabilito che il mandato del direttore sia di dieci anni, per evitare il ripetersi di una situazione come quella che aveva permesso a Hoover di conservare la carica – per così dire – “a vita”, dal 1935 al 1972, dopo essere già stato a capo del Bureau of Investigation dal 1924.

In tale maniera, l’FBI è riuscita a riconquistare la fiducia dell’americano medio, che era stata fortemente intaccata dagli abusi di potere commessi da Hoover grazie anche alla sua continua riconferma alla testa dell’agenzia.

Del resto, anche durante il dipanarsi dello scandalo Watergate, nonostante le pressioni di Nixon per indurre l’FBI a insabbiare l’indagine, il suo vice direttore, Mark Felt, in dissenso dalla linea opportunistica del presidente che tentava di scongiurare la propria incriminazione, passò segretamente ai giornalisti Carl Bernstein e Bob Woodward del “Washington Post” le informazioni necessarie a rilanciare l’inchiesta attraverso la stampa.

Un ritorno al passato e oltre

Con Trump, invece, stiamo assistendo a una riproposizione dell’assoggettamento dell’FBI al presidente. Non preoccupa soltanto l’uso politico che The Donald sta facendo dell’agenzia, ma anche la constatazione che, come ha ammesso il responsabile della divisione per la lotta al crimine del dipartimento della Giustizia, Matthew Galeotti, le indagini sulla corruzione aziendale e sulle violazioni della normativa vigente da parte delle corporation americane sono state accantonate perché nocive per il buon andamento degli affari e dell’economia statunitense.

In altre parole, l’FBI sta concentrando le sue inchieste sui “nemici” di Trump e sta tutelando gli “amici” del tycoon, cioè il mondo degli affari. Questa trasformazione degli obiettivi dell’agenzia comporta pure un ridimensionamento della sua capacità di garantire la sicurezza degli statunitensi, come ha rilevato all’inizio di luglio un editoriale del “New York Times”, in violazione del mandato con il quale l’agenzia è nata ottant’anni fa.

A intralciare l’operatività dell’FBI concorrono anche altri due fattori: da un lato, la perdita di competenze per destituzioni, pensionamenti e dimissioni di agenti con una lunga esperienza sul campo; dall’altro, la riduzione dei fondi a disposizione dell’agenzia, che con il varo della nuova legge di bilancio, il One Big Beautiful Act, promulgata da Trump il 4 luglio, ha subito tagli al suo budget di circa il 5% rispetto all’entità degli stanziamenti degli anni precedenti.

Invece, un’altra agenzia federale, l’Immigration and Customs Enforcement (ICE), che fa capo al dipartimento della Sicurezza interna, ha beneficiato di un consistente aumento dei finanziamenti, perché le sue funzioni – in particolare l’arresto, la detenzione e la deportazione degli stranieri irregolari – incarnano meglio uno dei principali obiettivi politici dell’amministrazione Trump: la lotta contro l’immigrazione clandestina.

In ogni caso, le trame del tycoon finiscono non solo per compromettere l’autonomia dell’FBI, ma anche per pregiudicare la sua professionalità, provocando un danno d’immagine all’agenzia e tornando ad alimentare la sfiducia dell’opinione pubblica statunitense nei confronti di questa istituzione.

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Stefano Luconi insegna Storia degli Stati Uniti d’America nel dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università di Padova. Le sue pubblicazioni comprendono La “nazione indispensabile”. Storia degli Stati Uniti dalle origini a Trump (2020), Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022 (2022), L’anima nera degli Stati Uniti. Gli afro-americani e il difficile cammino verso l’eguaglianza, 1619–2023 (2023). La corsa alla Casa Bianca 2024. L’elezione del presidente degli Stati Uniti dalle primarie a oltre il voto del 5 novembre (2024).

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