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Per gli investimenti italiani, cosa fare in Libia

Molti i contratti bloccati e difficili i risarcimenti – A Roma, in un convegno organizzato dallo studio legale Hogan Lovells, si è discusso di questi problemi e delle possibili soluzioni – Difficoltà anche nel caso di partecipazioni libiche nei gruppi italiani

Per gli investimenti italiani, cosa fare in Libia

Trovare una soluzione all’incertezza della guerra. Fornire elementi di chiarezza alle imprese che vedono messi a rischio contratti, commesse e investimenti. Capire quale potrà essere il destino degli asset libici, numerosissimi, presenti nel nostro Paese: si è discusso di tutto questo al workshop che si è tenuto mercoledì presso lo studio legale Hogan Lovells, nella sua sede di piazza Venezia, a Roma. Dove sono stati affrontati casi specifici. E sono state fornite possibili soluzioni concrete.
All’incontro, dal titolo “Imprese e crisi libica: scenari e soluzioni in diritto” si sono succeduti, come relatori, Natalino Ronzitti, consigliere scientifico dell’istituto Affari internazionali e ordinario di diritto internazionale presso la Luiss di Roma, Stefano Soliman, consigliere di legazione del ministero degli Esteri, Francesca Rolla, partner di Hogan Lovells, e Andrea Atteritano, associate dello stesso studio legale.
Enorme è la mole del business tra l’Italia e i Paesi del Nord Africa, interessati dall’inizio di quest’anno dalle rivolte popolari: si parla di 26 miliardi di euro. In Egitto e in Tunisia, dove la situazione sta tornando alla normalità almeno sul piano politico, vi è la possibilità di trovare interlocutori legittimi con cui confrontarsi, anche se neanche questi Paesi sono stati esenti dal calo degli investimenti registrato dall’Istat nel primo trimestre del 2011. La situazione libica, pero’, risulta più complessa e incerta. Lo stato di guerra civile, l’intervento Nato, la possibilità della costituzione di due diversi stati sovrani aprono dubbi e paure per le imprese italiane che hanno investito in loco. Le relazioni strettissime tra l’economia italiana e quella libica si fondano innanzitutto su ragioni storiche e sono state rafforzate nel tempo da un attività diplomatica che si è concretizzata in diversi trattati, tra i quali assumono particolare rilevanza il “Trattato di amicizia” siglato dal Governo Berlusconi nel 2008 e l’Accordo sulla promozione e protezione degli investimenti entrato in vigore nel 2000. La Libia è il primo fornitore di petrolio (Eni estrae circa 100mila tonnellate di greggio) e il quarto di gas, settore in cui si è investito moltissimo negli ultimi anni, che hanno visto l’inaugurazione del gasdotto green stream controllato da una joint-venture tra Eni e National Oil Corporation of Libya (Nocl). Ad oggi il gas libico copre il 12% del nostro fabbisogno nazionale. Il trattato del 2008, oltre a prorogare i rapporti energetici per altri 25 anni, prevede ulteriori investimenti da parte di Eni che è stata autorizzata ad avviare esplorazioni per trovare nuovi giacimenti e un piano di infrastrutture per 5 miliardi all’interno del quale spicca la costruzione dell’autostrada costiera, affidata al consorzio Saipem, un affare da circa 850 milioni di dollari. Si aggiunga a questi accordi bilaterali l’enorme quantità di medie e grandi imprese che operano in Libia: solo tra quelle registrate alla camera di commercio italo-libica se ne contano tra le 400 e le 500. Inoltre la Libia vanta numerose partecipazioni in società italiane, per citarne alcune: Unicredit, Fin.part, Juventus, Finmeccanica, Enel, Eni, Tamoil.
Quale sarà dunque il futuro di questi contratti e di questi investimenti? Dalle risoluzioni dell’Onu che riguardano sanzioni alla Libia (1970-1973) è vietata la fornitura di armamenti e di tutti i materiali che possano nuocere alla popolazione civile. Questa disposizione è stata interpretata in maniera molto larga dalla Nato che ha bloccato navi cariche di carburante dirette a Tripoli (ricordiamo che in Libia mancano le raffinerie) per evitare il rischio che fosse usato per scopi bellici. Tutti i nuovi contratti sorti in contrasto con le sanzioni, che prevedono, tra le altre, l’impossibilità di effettuare pagamenti verso i soggetti con patrimonio congelato (anche la Nocl), sono da considerarsi nulli perché perseguono scopo illecito. Per quanto riguarda i contratti sorti in precedenza vi sono due soluzioni: l’estinzione per impossibilità sopravvenuta o la sospensione, soluzione verso cui spinge il Governo italiano. In merito alla possibilità di risarcimento, c’è da dire che molti contratti prevedono clausole che fungono da garanzia, ma, nel caso non sia previsto nulla dal titolo, il risarcimento sarebbe assai difficile, rientrando nella fattispecie di estinzione per impossibilità sopravvenuta senza responsabilità. L’unica soluzione per i contratti precedenti sembra la loro sospensione che garantirebbe la possibilità che vengano ridiscussi in seguito, scenario che, comunque, rischia di prolungare di molto i tempi, visto che risulta assai rischioso stipulare accordi nell’immediato con gli insorti. In caso di una loro vittoria i contratti di nuova stipulazione sarebbero senza dubbio validi, mentre quelli sospesi, ammesso che sia accettata la sospensione, potrebbero essere rimessi in vigore oppure rinegoziati, risolvendoli con una novazione. In caso di divisione della Libia in due entità territoriali non solo sarebbero a rischio anche i nuovi accordi stipulati con gli insorti, ma, per i vecchi contratti, si aprirebbe un annoso processo di successione, che si dovrebbe concludere (stando alla prassi) in un accordo tra i due nuovi stati. Nell’improbabile e inauspicabile caso di vittoria di Gheddafi, gli accordi nuovi e vecchi sarebbero messi fortemente a rischio. Esclusa, invece, dalle risoluzioni ONU la possibilità che imprese libiche possano chiedere i danni per inadempimento a imprese italiane.
Per quanto riguarda le società che fanno parte del portfolio italiano delle istituzioni libiche sanzionate con conseguente congelamento del patrimonio (per esempio la Banca Centrale Libica, la Libyan Investment Authority o la Libyan National Oil), esse potranno continuare a svolgere l’ordinaria amministrazione. Invece, le spese straordinarie, dovranno essere sottoposte ad un’autorizzazione del Comitato sanzioni Onu, mentre, per le spese già stabilite prima dell’intervento delle sanzioni, purché siano lecite, non vi sono problemi. Sul piano dei crediti vantati da società italiane nei confronti di soggetti di diritto privato libico con patrimonio congelato, la situazione si presenta alquanto complessa. Infatti, se questi fossero accertati da sentenza precedente alle sanzioni, anche non passata in giudicato o senza efficacia esecutiva (per esempio un lodo arbitrale), si può ottenere, tramite richiesta al comitato di Sicurezza Finanziaria presso il ministero dell’Economia e semplice notifica al Comitato delle sanzioni, lo scongelamento dei beni in questione e l’adempimento dei debiti. Per quanto riguarda i crediti non comprovati da una sentenza precedente, invece, qualora vi fosse il consenso della controparte, si deve aspettare l’ok del Comitato delle Sanzioni dell’Onu. Se il consenso venisse a mancare, infatti, ci si dovrebbe rivolgere all’autorità giudiziaria competente prevista dai trattati italo-libico: o il tribunale libico o l’arbitrato Icsid. Dando per scontato che la seconda ipotesi sia molto più auspicabile, il lodo non avrebbe in questo caso efficacia esecutiva, non avendo la Libia aderito alla convenzione di Washington. La pronuncia giudiziale, però, potrebbe risultare preziosa in una fase successiva, quando, ristabilita la normalità, l’azienda creditrice si potrà avvalere di una sentenza a suo favore. Una volta ottenuta la possibilità di pignorare si porrebbe, comunque, il problema di cosa pignorare, visto che alcuni dei beni congelati, per esempio quelli appartenenti alla Banca centrale libica risultano impignorabili.
Il quadro che emerge da questo studio è intricato e incerto: ad oggi l’unica cosa sicura è che gli investimenti italiani in Libia subiranno dei danni, forse irreparabili.

Pubblicato in: News

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