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No alla supercasta: post-referendum, richiudere le porte delle municipalizzate a sindaci e parenti

di Linda Lanzillotta – Paradossalmente il referendum sull’acqua ha riaperto le porte dei cda delle società pubbliche a sindaci, amministratori locali e loro parenti – “Lunedì presenterò una proposta di legge in Parlamento per reintrodurre le incompatibilità al più presto”: si vedrà così chi difende la supercasta politica e chi vuole fermarla.

No alla supercasta: post-referendum, richiudere le porte delle municipalizzate a sindaci e parenti

La partecipazione massiccia ai referendum è stata un fatto politico più che positivo; una spinta alla partecipazione e al cambiamento. Ciò detto, gli effetti dei referendum sull’acqua, trascinati dall’onda di una campagna demagogica e populista che ha fatto leva su sentimenti profondi, sulle ansie e sull’insicurezza che il secolo della globalizzazione ha generato, cominciano a manifestarsi nella loro realtà. E così ora si piange sul latte versato e si scoprono, giorno dopo giorno, tutte le implicazioni del referendum “sull’acqua pubblica”, implicazioni che la campagna referendaria ha volutamente celato impedendo all’opinione pubblica di comprendere con chiarezza i termini della questione e di capire che il referendum “salva acqua” era in realtà un referendum “salva casta”.

E così si viene ora a scoprire – ma molti invano lo avevano segnalato anche prima – che l’abrogazione referendaria, oltre a comportare una ripublicizzazione della gestione dei servizi pubblici locali (non solo acqua ma anche rifiuti, trasporto locale, illuminazione pubblica, servizi cimiteriali, giardini, ecc), oltre a evitare che tali gestioni si debbano sottoporre ad una verifica di efficienza ed economicità attraverso le gare, travolge anche il regolamento di attuazione (n. del 2010) che aveva il suo fondamento giuridico nell’articolo 23 bis ormai non più in vigore. Venuta meno la norma primaria cadono anche le altre. E in quel Regolamento oltre ad essere indicate procedure, regole e criteri di svolgimento delle gare (che ormai non si faranno più), si stabilivano due cose molto importanti: la prima era che nelle società concessionarie dei servizi locali di proprietà pubblica assunzioni e attribuzioni di incarichi dirigenziali dovessero essere fatti attenendosi alle regole in vigore per le amministrazioni pubbliche: cioè concorsi, attribuzione degli incarichi dirigenziali sulla base di requisiti oggettivi in modo da garantire trasparenza e verificabilità delle scelte effettuate; il secondo punto era una disciplina molto puntuale e stringente delle incompatibilità.

Norme che vietavano ai dirigenti degli enti proprietari delle società concessionarie e ai loro parenti ed affini entro il quarto grado di essere nominati nei Consigli di amministrazione delle società, di essere nominati manager o di ricevere incarichi di consulenza. E analoghi divieti erano previsti per coloro che avessero ricoperto incarichi elettivi e per i loro parenti. Insomma, norme che rappresentavano un serio tentativo di mettere la parola fine, o quanto meno di ridimensionare drasticamente, la prassi universalmente diffusa di usare le più di 7.000 società (la stima è della Corte dei Conti) partecipate da Comuni, Province e Regioni come rifugio (in genere molto ben retribuito) di politici “trombati”, un modo per contenere la logica spartitoria con cui queste società sono governate, di mettere un freno al malcostume delle varie parentopoli e vallettopoli di cui ogni giorno narrano le cronache (a cominciare da quella di Roma).

E non si tratta di poca cosa ma di decine di migliaia di posti clientelari che costano alla finanza pubblica e al sistema Paese non solo in termini di esborso di denaro ma per la rete di corruttela che da questo sistema emana, per la pervasività della intermediazione politica nell’economia che tali meccanismi generano (si pensi solo agli appalti e agli acquisti gestiti dalle società locali) soffocando imprese e cittadini, per la cattiva qualità dei servizi.

Norme che erano in grado di innestare una vera e profonda riforma della politica. Ma che avrebbero richiesto al sistema dei partiti di fare un passo indietro, di ridimensionare la propria presenza, di ridurre il proprio ruolo di intermediazione. E’ stupefacente come questi elementi – pervasività dei partiti, costi della politica – cui i cittadini sono giustamente così sensibili siano stati taciuti e siano stati rimossi dal dibattito sul referendum. Sarebbero stati temi che avrebbero consentito ai partiti riformisti – penso innanzi tutto al PdL, che la legge aveva promosso e che ha lasciato praticamente solo il povero ministro Fitto a difenderla, ma penso anche al PD guidato dal Bersani delle “lenzuolate” – di contrastare il populismo no global dei promotori con argomenti altrettanto popolari. Nasce il dubbio che in fondo far saltare queste norme facesse comodo a tutti perché ricollocare il numeroso personale politico che gravita intorno al mondo delle società dei servizi locali sarebbe stata impresa non semplice e avrebbe comportato una ridefinizione dei rapporti di potere tra e nei partiti.

Ora però quelle norme sono più necessarie di prima: la ripubblicizzazione delle gestioni, l’eliminazione dei meccanismi competitivi che avrebbero dovuto garantire efficienza ed economicità, la pubblicizzazione degli investimenti e della gestione dei relativi appalti, esige che siano reintrodotte e, se possibile, rese ancor più severe le norme sulle incompatibilità. A questo scopo lunedì stesso presenterò una proposta di legge per reintrodurre le norme del Regolamento trascinato dall’abrogazione dell’articolo 23 bis del Decreto Ronchi e insisterò perché sia discussa al più presto. Bastano poche sedute per approvarla. Vedremo allora se l’effetto “salva casta” è stato solo il risultato di una svista involontaria o se invece era uno dei veri obiettivi almeno di una parte dei referendari.

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