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Dopo il successo in Europa, le vere prove del fuoco di Renzi sono due: spending e mercato del lavoro

Il successo italiano al vertice europeo con la promozione di Federica Mogherini a nuova Lady Pesc corona una settimana di rinnovato attivismo del governo Renzi,  che negli ultimi giorni ha anche approvato lo Sblocca-Italia, benchè molto ridimensionato nei numeri, e l’attesa riforma della giustizia e promette per mercoledì la riforma della scuola.

Renzi è convinto di poter realmente cambiare l’Italia in mille giorni e domani presenterà la cronologia delle riforme. Chiunque abbia a cuore le sorti del nostro Paese non può che incrociare le dita e sperare che l’ambizioso programma del premier abbia successo, con buona pace di quelli che giustamente Renzi sbeffeggia come gufi e rosiconi. Non si può però non concordare con le sagge considerazioni che ieri al Meeting di Cl a Rimini ha fatto il ceo della Fiat, Sergio Marchionne, un manager vincente e un sostenitore da sempre di Renzi, quando ha apprezzato il coraggio del premier e ha confermato il suo sostegno ma ha anche realisticamente ricordato che finora di risultati se ne sono visti pochi e che il cammino per uscire dall’immobilismo italiano è lungo assai. 

Di carne al fuoco Renzi ne ha messa tanta in questi suoi primi mesi a Palazzo Chigi e non ha mai perso la fiducia di portare il Paese a una svolta malgrado i risultati che vengono dall’economia siano a dir poco inquietanti: non solo gli 80 euro non hanno finora dato i frutti sperati nel rilanciare i consumi ma, per la prima volta dopo oltre cinquant’anni, l’Italia si ritrova in deflazione e in recessione insieme mentre la disoccupazione cresce a vista d’occhio e mette in ginocchio un’intera generazione.

Nelle condizioni in cui l’Italia si ritrova è giusto intervenire a 360 gradi su tutti i punti dolenti per avviare un programma di rilancio e di modernizzazione che avremmo dovuto realizzare da anni, ma non tutte le riforme hanno ma stesso peso e la stessa importanza.  Ci sono le tasse da ridurre, c’è la burocrazia da riformare, c’è il mercato del lavoro da rianimare, ci sono le infrastrutture materiali e immateriali da rilanciare: insomma il campo è vasto. Ma le riforme, come si sarebbe detto una volta a proposito delle azioni, non solo si contano ma soprattutto si pesano.  Mario Draghi lo ha detto chiaramente a Renzi nell’incontro umbro di qualche settimana fa: va benissimo avviare riforme in tutti i campi dove le arretratezze del Paese gridano vendetta, ma i veri terreni prioritari su cui il governo Renzi è atteso alla prova decisiva e su cui sarà giudicato sono principalmente due e cioè la spending review e il mercato del lavoro. E’ su questo che l’Europa e i mercati finanziari valuteranno se l’Italia ce la può fare e se Renzi ha davvero imboccato la strada, lungamente attesa, della svolta riformatrice. Ed è su questo che si può realisticamente sperare nella flessibilità applicativa delle regole europee.

Spending e mercato del lavoro. Senza una selezione e un taglio forte della spesa pubblica improduttiva non c’è speranza di ridurre davvero le tasse sul lavoro e sulle imprese di quanto serve per rilanciare l’economia, ma soprattutto non c’è speranza di cominciare a smontare quel coacervo di interessi trasversali e perversi che da troppo tempo blocca il Paese e che trova sostenitori spesso impensabili a destra e a sinistra, come ha ricordato ieri Marchionne. La spending review è la prima delle prove del nove di Renzi e il premier lo sa e sa anche che in questo campo i fuochi d’artificio contano poco ma valgono solo i risultati.  Coraggio.

L’altra sfida, quanto mai incerta, che domina il cammino del governo Renzi è quella delle regole del mercato del lavoro. Il boom della disoccupazione avrebbe dovuto aprire gli occhi all’intero Paese e rendere evidente a tutti che le regole attuali hanno fallito e che senza una maggiore flessibilità, che non è affatto sinonimo di precarietà, non si va da nessuna parte. Anziché perdersi nel vetusto dibattito sull’articolo 18, Renzi è stato il primo presidente del Consiglio di sinistra a dire che è tempo di rivedere l’intero Statuto dei lavoratori.  Un segnale che solo gli stolti non hanno compreso ma che è fondamentale. A condizione che venga tradotto in fatti in tempi ragionevolmente brevi. Ieri il ministro Poletti ha detto che il Jobs Act taglierà il traguardo entro l’anno. Considerando che sul tavolo del Parlamento ci sono anche le riforme istituzionali ed elettorali e le altre riforme, approvare il Jobs Act e le nuove regole sul mercato del lavoro all’insegna di una maggiore flessibilità sarebbe un buon risultato se però i passi avanti non saranno stemperati nel corso del loro cammino. L’Europa e i mercati ci giudicano.

Naturalmente, in un Paese di inutili soloni e di insopportabili tromboni, si fa presto a reclamare svolte sulla spending e sul lavoro, ma poi bisogna fare i conti con la dura legge della politica come la complicata riforma del Senato ha messo in evidenza.  La differenza tra le chiacchiere da bar e la politica è tutta qua: le prime lasciano il tempo che trovano mentre la seconda deve produrre fatti e cambiamenti. La politica però è l’arte del possibile e Renzi ha dimostrato il pragmatismo che serve a un leader moderno. Ora però bisogna è tempo di andare in gol. Hic Rhodus, hic salta. 

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