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Le banche alla vigilia degli esami della Bce: alla fine anche l’Italia farà la bad bank o no?

FIRSTonline

Una maxi operazione trasparenza che cercherà di dare una scossa di fiducia al sistema bancario per riannodare i fili (fragili) della fiducia e far ripartire il credito. Mercoledì la Bce ha diffuso il documento in cui ha annunciato un’ampia analisi delle più grandi banche europee (130 banche dell’Eurozona, di cui 15 italiane, non solo le big come Unicredit e Intesa ma anche istituti più piccoli e locali come per esempio Creval, Popolare di Sondrio, Veneto Banca, per citarne solo alcuni). L’operazione, una valutazione approfondita unica applicata in modo uniforme a tutte le banche significative, si inserisce in un percorso che dovrà portare all’assunzione del ruolo di vigilanza unica da parte della Bce nel novembre 2014, primo tassello di un più ampio progetto di Unione bancaria (che punta anche a istituire un unico meccanismo di risoluzione per le banche).

Se l’analisi promette di essere severa anche sul fronte dei titoli tossici e della leva (che affliggono soprattutto gli istituti nordici) e di allinearsi ai criteri più stringenti sulla classificazione dei crediti usati in Italia, il livello dei crediti deteriorati accumulati dalle nostre banche non lascia tutti tranquilli. Bankitalia stima che gli istituti sono gravati da 300 miliardi di euro di crediti deteriorati. Rassicura il ministro dell’economia Saccomanni “L’Italia non ha nulla da temere, il sistema bancario italiano si è dimostrato tra i più solidi di tutte le economie avanzate nonostante una crisi lunghissima che ha messo in ginocchio altri sistemi, è certamente uno tra quelli meglio vigilati”.

L’analisi partirà a novembre e durerà un anno. E i risultati potrebbero portare a dover ricapitalizzare le banche che non supereranno il test. Ed è già partito il pressing di Draghi affinché i governi si dotino delle risorse pubbliche necessarie prima che l’analisi metta in luce le debolezze dei bilanci. Per Draghi imporre perdite ai creditori (come indicato dalla risoluzione europea sul bail in che dovrà entrare in vigore) su tutte le banche che dovessero fallire gli stress test sarebbe destabilizzante per i mercati (come ha scritto in una lettera al Commissario della concorrenza Joaquin Almunia).

Ma, si sa, la Bce (come Draghi ha ricordato più volte) non può risolvere tutti i problemi e molto dipende anche dalle scelte dei singoli sistemi nazionali. A fronte di tale mole di crediti dubbi e di prospettive economiche che promettono di aumentarli, rimane comunque sempre sullo sfondo anche l’ipotesi della bad bank. Per alcuni il modo migliore per far ripartire il credito è infatti ripulire il sistema del fardello dei crediti incagliati o problematici. Le sofferenze, infatti, incidono sulla redditività e questo incide sulla disponibilità delle banche ad erogare credito (come ha sottolineato il recente rapporto della Fondazione Rosselli).

SULLO SFONDO RIMANE L’IPOTESI BAD BANK

 “Per essere in grado di fare il loro mestiere esse debbono essere quindi alleggerite di parte dei cattivi debiti che lo rendono impossibile” ha scritto qualche giorno fa  Romano Prodi sulle pagine del Messaggero precisando che “diviene quindi necessario, con la cooperazione di soggetti privati e pubblici, dare vita a una struttura che, rilevando una parte dei crediti “cattivi” delle banche, permetta il ripristino della circolazione sanguigna del nostro corpo economico”. Il dibattito dura da tempo anche alla luce delle esperienze di altri Paesi, dove la bad bank è stata declinata ogni volta in tempi e modi diversi. C’è stata la Spagna che, grazie agli aiuti di Bruxelles (e alla scelta di pagarne il prezzo politico e sociale), ha creato il Sareb, la bad bank dove sono stati fatti confluire i crediti immobiliari ormai tossici, 50 miliardi di euro di asset provenienti da diversi istituti di credito in difficoltà, tra cui Bankia.

Come ha recentemente sottolineato il Financial Times, la bad bank è piaciuta ai mercati e stimolato l’interesse di investitori internazionali (dal fondo Cerberus ad Apollo). “Iniziamo a vedere gruppi di private equity che non avevano uffici in Spagna che ora assumono spagnoli e aprono sedi nel Paese”, ha detto al quotidiano della City londinese  Alejandro Ortiz, partner di Linklaters in Spagna. E sta facendo ripartire il sistema bancario spagnolo. Mentre il Paese è uscito dalla recessione durata due anni con un pil del terzo trimestre a +0,1%. Anche l’Irlanda per i suoi 70 e oltre miliardi di prestiti tossici già nel 2009 aveva creato una bad band, Nama. Dopo aver rilevato gli asset tossici con uno sconto del 56%, oggi Nama sta generando profitti anche se  le prospettive, alla fine dei dieci di anni di vita previsti al 2020, guardano solo al pareggio sugli investimenti fatti (originariamente si pensava di riuscire a ottenere un utile di 1 miliardo).  In Cina, invece, secondo quanto riporta Bloomberg, le quattro bad bank create a livello statale nel 1999 per ripulire banche sull’orlo della bancarotta delle loro attività non redditizie sono riuscite a trasformare in profitti i 1.400 miliardi di yuan (229 miliardi di dollari) di asset tossici. Una di questa, Cinda, si sta persino preparando ad andare in Borsa con un’Ipo a Hong Kong da 3 miliardi di dollari, dopo che Ubs e Standard Chartered hanno già comprato quote. Così oggi il Paese sta pensando a un nuovo round di bad bank, questa volta a livello provinciale, come soluzione alle prospettive di crescenti crediti tossici attesi come conseguenza del programma di stimolo economico adottato contro la crisi e in vista della maggiore deregolamentazione finanziaria verso cui si sta muovendo. Nonostante un pil al 7,8% nel terzo trimestre, le banche cinesi hanno triplicato le sofferenze.

La bad bank sta guadagnando sostenitori anche in Grecia tra le banche di grandezza sistemica: due banchieri degli istituti Piraeus e National hanno recentemente dichiarato a Reuters che intendono separare gli asset deboli dal resto. Infine,nelle prossime due settimane il ministro delle finanze britannico George Osborne deciderà se spezzare Royal Bank of Scotland e spostare gli asset tossici in una bad bank. In questo caso il mondo finanziario non sembra così entusiasta. È iniziato il pellegrinaggio degli investitori contro il progetto che per alcuni distruggerà valore per la banca, causando 15miliardi di perdite di capitale e togliendo a Rbs la possibilità di beneficiate di un miglioramento dell’outlook peri suoi asset tossici. Alla fine, c’è chi ritiene che Osborne opterà per un compromesso, ossia creare una unità di bad bank all’interno della banca Rbs.

PERCHÉ IN ITALIA LA BAD BANK NON BASTA
Il problema per l’Italia è che le controindicazioni non mancano. In primo luogo anche per la bad bank servono soldi. “In Italia la bad bank può funzionare solo in teoria. Ci sono diverse domande da farsi: chi ci mette i soldi? Siamo disposti a metterci sotto tutela Bce come ha fatto la Spagna? Facciamo una bad bank o bad bank settoriali?”, afferma Adriano Bianchi, managing director di Alvarez&Marsal, la società americana che ha gestito il salvataggio delle banche per conto del governo spagnolo, ha partecipato alla  creazione della bad bank irlandese Nama e al Chapter 11 di Lehman Brothers. E aggiunge. “Se anche lo Stato avesse i soldi, non so se passeremmo dalla padella alla brace”. Tra Spagna e Italia, per esempio, c’è una sostanziale differenza: le banche spagnole si dovevano liberare per la maggior parte di titoli tossici del settore immobiliare, in Italia i problemi sono invece i crediti alle imprese. “Un conto è fare una bad bank come sorta di magazzino di asset immobiliari, un altro è gestire molte aziende – spiega Bianchi – Le bad bank hanno funzionato abbastanza bene in quei paesi dove il grosso dei problemi era concentrato per settori, per esempio in Spagna l’immobiliare, così come in Irlanda. Il fatto che si trattasse dell’immobiliare ha comportati un vantaggio non indifferente: per quanto per smaltirlo ci vorranno anni, qui il valore non si deteriora nel tempo. Al contrario, in un mondo molto diversificato dove il goodwill è dato dall’azienda che continua a operare, la bad bank ha qualche problema in più per essere implementata”. In poche parole, l’impresa per non distruggere il proprio valore deve continuare l’attività, non può aspettare di essere ceduta ad altri investitori dalla bad bank, che alla fine di fatto non è una banca ma un asset manager (e in ogni caso, la bad bank da sola non basta, affinché possa funzionare si dovrebbero anche affrontare altri aspetti di tipo giuridico e culturale, che differenziano la situazione italiana, per esempio, dallo scenario Usa dove esiste il famoso Chapter 11).

D’altra parte anche per il Fmi la bad bank non sembra la strada da preferire. A Washington, come è emerso recentemente in occasione di una missione del Fondo in Italia, si guarderebbe con più favore all’espansione di un mercato privato di debito “distressed”. Soluzione che piace anche a diversi banchieri italiani, tra cui Alessandro Profumo, il presidente del Monte dei Paschi di Siena. Anche se alcuni analisti ritengono che l’incapacità dell’Italia di fissare una regola su come gestire la debolezza delle banche sia fonte di preoccupazione.

La crisi del sistema bancario è la spia di un Paese che fa difficoltà a confrontarsi con il mondo” afferma Bianchi, per il quale ci si deve chiedere prima di ogni altra cosa quale sia un piano industriale sostenibile per il sistema bancario. “Se diciamo che l’export è la chiave per la ripresa – spiega Bianchi – allora dobbiamo sostenerlo, chiediamoci quante banche italiane sono in grado di sostenere imprese nei mercati che contano, come Hong Kong”. Ci attende quindi una nuova stagione di M&A per consolidare un sistema frammentato in piccoli e medi istituti? Probabile. Ma non come in passato. Oggi la strada passa per l’estero, in quelle aree dove c’è la crescita, per compensare la difficile congiuntura economia del mercato domestico. “Quale banca italiana si può proporre oggi realisticamente da consolidatore?”, si chiede Bianchi che lancia una provocazione: “Si potrebbe pensare a una banca cinese che ingloba le nostre popolari, per fare la popolare cinese perché no?”. Oppure l’Africa, che si candida a diventare la nuova frontiera emergente: “Magari gli istituti italiani potrebbero qualificarsi qui per andare a comprare altre banche”.

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