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La ricetta di Marco Ambrosino: con la Chiajozza il mare di Procida arriva ai navigli di Milano

Ristorante 28 posti

Due porte 28 posti in via Corsico sui Navigli nel pieno della movida meneghina: si oltrepassa La soglia e improvvisamente ci si trova coinvolti e immersi in un concetto di filosofia mediterranea,  un angolo di meridionalità con tutti i suoi valori antichi e moderni che toccano diversi aspetti: la cucina, evidentemente, perché stiamo parlando del ristorante “28 posti” un locale che si è conquistato un posto di assoluto rilievo nella mappa dei ristoranti amati dai foodies milanesi, e non solo, ma anche la solidarietà che è uno dei capisaldi della cultura meridionale nella storia, ma anche quell’effetto di dimensione metafisica per cui a Napoli il tempo sembra non passare o quantomeno sembra chiuso in una teca atemporale nella quale passato presente e futuro si confrontano dinamicamente senza che ci sia mai una soluzione di continuità.

Chef e coautore di questo originale progetto è un giovane procidano doc, Marco Ambrosino trentacinque anni, un passato di studi di economia prima di trasferirsi anni e bagagli in cucina per realizzare la sua voglia di scrivere qualcosa di nuovo sulle sue tradizioni gastronomiche. La sua avventura inizia a 14 anni partendo dal basso: fa il lavapiatti in alcuni ristoranti per raggranellare qualche soldo per le sue prime necessità.  Poi però c’è un cambiamento così un po’ per quelli per quella casualità che è ricorrente in tante avventure uno zio rileva un una vinatteria-ristorante se lo chiama a lavorare con sé finché un giorno ambrosino si trova a dover cucinare sulla base delle esperienze maturate in casa vedendo i prodigi della mamma, delle zie e soprattutto della nonna ai fornelli, che sapevano produrre grandi sapori e grandi profumi.  Ma il primo vero impegno è subito successivo quando Marco Ambrosino decide con alcuni amici di aprire un ristorante. Questa volta non si tratta di improvvisare ma di impegnarsi sul serio e lì scatta la scintilla. Ambrosino, abbandona gli studi di economia e capisce che questo sarà il suo mestiere e poi anche la sua professione e diligentemente va a imparare la cucina seria quella impegnata, in un ristorante stellato celebre a Ischia, quello di Libera Iovine che lo introduce alla grande cucina e alla conoscenza delle materie prime.  A questo punto un altro grande salto carpiato, e con grande coraggio, il giovane se ne va da René Redzepi al ristorante Noma, a Copenaghen, premiato con 3 stelle Michelin ed eletto per ben quattro volte miglior ristorante del mondo secondo la classifica annuale The World’s 50 Best Restaurants. Insomma, il salto è nel futuro e questo segnerà anche la sua cultura culinaria che punta a un equilibrato connubio tra la cucina tradizionale campana e quella sperimentale e d’avanguardia. Per Ambrosino il Mediterraneo con le sue tante affascinanti storie ha molto di nuovo da raccontare per il futuro senza ricadere nei soliti aspetti di una tradizione caricaturale. Quindi piedi ben saldi nel mediterraneo ma il cervello spazia nelle rarefatte atmosfere del nord Europa come in quelle subliminali dell’estremo oriente.

Il valore positivo della diversità e il ritorno alle origini: premiati dalla Guida Michelin e segnalati dal New York Times

La filosofia della sua Procida ritorna anche, nell movida dei navigli della capitale italiana dell’opulenza, nella cucina che si rifà a quella delle nonne, che non spreca ma recupera tutto, che usa materie prime apparentemente povere ma cariche di significati, che sa esaltare con un linguaggio nuovo i profumi e i sapori di un tempo, che trasforma gli scarti attribuendo loro un’incredibile nobiltà. Così come è un cuore solidale di Procida che pulsa sotto il progetto del Collettivo Mediterraneo che ha riunito cuochi, giornalisti, antropologi, architetti, divulgatori, artisti nel creare un’identità mediterranea forte, consapevole, autorevole, che parta proprio dal racconto dell’altro, del diverso. Un concetto che vuole trasformare in valore positivo quella diversità che in alcune opinioni è considerata come un limite.

In effetti nei 28 posti di Ambrosino tutto parla di diversità, a cominciare dai lavori edili eseguiti dai detenuti dell’Istituto Penitenziario di Bollate, dai lavori di falegnameria affidati dall’associazione Liveinslums Onlus Ong, a un laboratorio di falegnameria  all’interno del carcere che ha realizzato tavoli, porte e armadiature del ristorante per proseguire con oggetti che fanno bella mostra di sé in sala e in cucina, autoproduzioni provenienti dalla baraccopoli di Mathare e dal laboratorio del ferro di Jua Kali (Nairobi).

Un concetto totalizzante di diversità, che capovolge la tendenza in atto da qualche anno a questa parte di una ristorazione che cerca galloni a volte più estetici che di contenuti. Qui no, è come se lo chef cinque anni fa avesse preavvertito il bisogno di ritornare alle origini, alla loro esaltazione, alla semplicità delle cose naturali e salutari che lo tsunami della Pandemia ha fatto esplodere.  Una scelta premiante e premiata: la Guida Michelin ha assegnato allo chef il piatto e un coperto; Espresso 2018 due cappelli il Touring Club lo ha premiata per il “Miglior Piatto di Pasta”, Identità Golose lo ha inserito nella Guida “Ristoranti D’Autore” e addirittura Il New York Times in una sezione dedicata ai viaggi nell’edizione online lo ha inserito fra le cose da vedere e fare a Milano in 36 ore in città.

Marco Ambrosino: la sua ricetta della Chiajozza

Per i lettori di Mondo Food Marco Ambrosino propone la sua ricetta della Chiajozza, un piatto che prende il nome da una delle più suggestive baie dell’isola dove lo chef ha la sua casa e interpreta la nostalgia per la sua isola nativa, un trionfo di profumi di mare e di intensità mediterranea. Ha spiegato «L’idea del piatto nasce dalla volontà di raccontare un luogo, attraverso l’utilizzo di ingredienti evocativi. I riti pasquali, l’insalata di cappuccio, le canocchie, il pino, marittimo. In fine il riccio di mare, grande protagonista delle estati isolane”. La Chiajozza viene pertanto eletto a simbolo delle sue origini, scelto per la sua capacità di rimandare luoghi lontani. “Un piatto nostalgico, un piccolo modo per portare Procida a Milano e me a Procida un pezzo di costa tirrenica in un piatto fortemente identitario».

La ricetta della Chiajozza

Ingredienti per 4 persone:

8 canocchie

80 g polpa di riccio di mare

200 g di cavolo cappuccio

2 albumi

aghi di pino marittimo

olio di vinacciolo

Prodcedimento

Frullare nel Bimby uguale peso di aghi di pino marittimo e olio di vinacciolo.

Unire in un contenitore riccio di mare, sale, pepe, succo di limone; mettere il composto in una gelatiera.

Cuocere in forno a 180° i carapaci delle canocchie; montare a neve due albumi; aggiungere un cucchiaio di nero di seppia; seccare in forno a 60°.

Frullare la meringa e i carapaci fino a ottenere una sabbia sottile.

Condire le canocchie con l’olio al pino marittimo.

Aggiungere cavolo cappuccio a julienne condito con aceto di mele e menta, completare con una quenelle di gelato al riccio e la finta sabbia.

Ristorante 28 posti

Via Corsico 1

20144 Milano

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