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Il Pd, Renzi e Zingaretti: l’alternativa antipopulista è lontana

FIRSTonline

Nessuna distinzione dall’establishment, incomprensione dell’ondata regressiva internazionale, troppa poca rottamazione, troppe divisioni interne, subalternità alla cultura della Cgil, algida sobrietà anzichè forte identità in campagna elettorale: arrivano un po’ tardi e sono un po’ troppo schematiche ma, ad un esame imparziale, sono in buona parte condivisibili le 10 ragioni che l’ex segretario del Pd, Matteo Renzi ha indicato ieri all’assemblea dell’Ergife per spiegare la sonora sconfitta rimediata dal suo partito alle elezioni politiche del 4 marzo. Ma a lui e ancor di più a tutto il suo partito, che oscilla tra nostalgie di un passato che non tornerà e impossibili rivincite a breve termine, sfuggono altri problemi di prima grandezza, senza risolvere i quali la costruzione di un’alternativa democratica al populismo e al sovranismo resta una pura chimera. In questo percorso il principale errore che incombe sul Pd è quello di ricercare l’alternativa partendo dalla coda e cioè dividendosi sugli schieramenti, sia interni che esterni, e sulla scelta dei leader prima di chiarire che cosa si vuole realmente e quali sono gli obiettivi politici di fondo in una società e in un mondo che sembrano aver perso la bussola.

Si può anche comprendere che, dopo la batosta del 4 marzo 2018, seguita da altri rovesci alle amministrative e preceduta da quella del referendum del 4 dicembre del 2016 che è la madre di tutte le sconfitte, un partito viva un inevitabile sbalestramento fino al punto di dubitare sul suo futuro e sull’utilità stessa di un veicolo come il Pd. E può anche darsi che il congresso d’autunno, dopo la parentesi della segreteria Martina, aiuti il Pd ad uscire dallo stato di ipnosi in cui è finito, ma senza fare i conti fino in fondo con i motivi della propria crisi è impensabile che cominci la riscossa e che si pongano le basi per la costruzione dell’alternativa anti-populista e anti-sovranista.

Al netto delle sue responsabilità e dei suoi errori, Renzi ha certamente ragione nel ricordare che il Pd era l’ultimo argine alla deriva populista e che condurre una battaglia ossessiva contro il Pd non poteva aprire le porte al sole dell’avvenire ma, come è puntualmente avvenuto, alla destra nazionalista della Lega e all’ambigua e contradditoria protesta anti-sistema dei Cinque Stelle. Ed è altrettanto vero che, oltre a quella delle forze politiche democratiche, una autocritica severa spetterebbe all’intera classe dirigente, da quella burocratica a quella intellettuale, da quella industriale e finanziaria (che dire dei paper anti-euro veicolati da Mediobanca?) e ancor di più a quella sindacale, ma soprattutto ai grandi mezzi di informazione, la cui superficialità e la cui miopia politica spesso rasentano l’inverosimile e sono oggettivamente tra le ragioni dell’involuzione italiana.

C’era dunque una volta l’argine anti-populista del Pd ma, piaccia o no, quella diga è crollata il 4 marzo e per ribaltare l’orizzonte politico del Paese non basteranno le minestre riscaldate né i pannicelli caldi.

Tre punti sembrano ineludibili se il Pd vuol sperare che la lunga traversata nel deserto rintracci un orizzonte riformatore, europeista, antipopulista e antisovranista.

LA PIATTAFORMA POLITICA QUAL E’?

Dove vuole andare il Pd? Qual è il suo progetto politico, qual è la sua vision e quali i suoi obiettivi prioritari, che futuro immagina per l’Italia e come risponde alle grandi sfide epocali che attraversano il nostro tempo? Non basta dire Europa e riforme per costruire un’alternativa democratica: questa è la base di partenza, ma per raccogliere le attese di una società piena di paure e senza certezze occorrono ben altre risposte attraverso una battaglia culturale e ideale che accompagni quella politica.

Qualche esempio.

1) Sull’Europa non basta giocare in difesa di fronte allo sfaldamento dell’Unione europea provocata dal fronte sovranista ma l’alternativa si costruisce andando all’attacco dei sovranisti e ponendo all’opinione pubblica la seguente domanda: è vero che l’Europa è piena di difetti e va profondamente riformata ma ha garantito 60 anni di pace e dunque questo strumento di pace vogliamo conservarlo e migliorarlo o preferiamo un futuro di conflitti tra gli Stati?

2) Anche sull’euro l’alternativa democratica non può che partire da una controffensiva che vada al cuore dei problemi e che ponga agli italiani la seguente e semplice domanda: volete mantenere la moneta unica o volete perdere dalla sera al mattino dal 30 al 40% dei vostri salari, dei vostri stipendi, delle vostre pensioni e dei vostri risparmi tornando alla lira che varrà poco più della metà dell’euro?

3) Analogamente, sul lavoro e sulla giustizia sociale la lotta al populismo pretende risposte limpide e convincenti. E’ vero che l’economia non è più in recessione ma come mai l’Italia cresce meno degli altri partner europei e che importa alle nuove generazioni, che non hanno certezza di un lavoro stabile, che spesso ricevono salari troppo bassi e che rischiano di non avere mai una pensione, se il Pil migliora di qualche frazione di punto? E sulle diseguaglianze sociali non ci si può accontentare del fatto che l’evidenza empirica ci dice che in Italia non sono cresciute: l’obiettivo di una forza democratica deve essere quello di ridurle attraverso una maggior crescita (altro che la decrescita felice che affascina i grillini) e una più equa distribuzione delle risorse. Ma come? La forbice tra realtà e percezione della realtà va affrontata dalla radice con dosi più massicce di riforme che non cancellino quanto è stato fatto ma vadano oltre e puntino a una modernizzazione del Paese che abbia nella classe media, nei ceti popolari e nelle nuove generazioni i suoi principali beneficiari.

4) Sulla sicurezza e sull’immigrazione la via avviata dall’ex ministro Minniti è stata riconosciuta come un modello da tutta l’Europa ma se oggi la maggioranza del Paese è sedotta dalle politiche muscolari della Lega non bastano le demonizzazioni: bisogna fare qualcosa di più e meglio.

L’IDEONA CHE NON C’È

La Lega ha vinto le elezioni al Nord proponendo la flat tax e la cacciata di 600 mila migranti mentre i Cinque Stelle hanno stravinto al Sud proponendo il reddito di cittadinanza. Tutti sanno che sono proposte fasulle che non si realizzeranno perché, se realizzate, sfascerebbero i conti dello Stato. Ma l’alternativa qual è? Non bastano le 100 diligenti proposte del programma del Pd elaborate dal professor Nannicini, che saranno anche giuste ma che non hanno appeal e non si traducono in un obiettivo forte e in un asse in grado di dare identità programmatica all’alternativa e di appassionare l’opinione pubblica democratica. Serve un’ideona? Sì, serve un’ideona che simboleggi tutto il progetto e il programma di riforme su cui costruire l’alternativa.

IL CAMPO DI GIOCO E LE ALLEANZE POLITICHE E SOCIALI

Oltre ai progetti e ai programmi politici, tuttora carenti nell’opposizione, bisogna poi avere ben chiaro qual è il campo di gioco. In futuro si voterà ancora con il proporzionale o si tornerà al maggioritario? Allo stato, la prima ipotesi sembra la più probabile, magari rafforzata da un premio di maggioranza più sostenuto di quello previsto dal Rosatellum. Ma allora, non si può realisticamente pensare che un partito come il Pd che non arriva al 19% conquisti il 40 o il 50% e farà bene quel partito a seppellire per sempre la vocazione maggioritaria di veltroniana memoria e a porsi il problema delle alleanze, partendo però dalle proprie discriminanti programmatiche ed identitarie. In campo ci sono due proposte: quella del Fronte repubblicano di Carlo Calenda, che ipotizza uno schieramento antipopulista che va dai moderati del centrodestra ai fuoriusciti di Leu; quella di Nicola Zingaretti che sostanzialmente ripropone l’armata brancaleone dell’Ulivo riaprendo le porte a Bersani, a D’Alema ma anche a Fassina e dintorni per poi tentare di allearsi con i Cinque Stelle. Ma nessuna delle due ipotesi, entrambe verticistiche, sembra convincente: la prima perché difficilmente può avvicinarsi al 51% degli elettori e la seconda perché prefigura ministre riscaldate, già fallite in passato, e la subalternità ai Cinque Stelle. E Renzi che ne pensa? Dovremo aspettare la Leopolda per saperlo?

Contenuti programmatici e alleanze politiche vanno di pari passo ma anche su questo Renzi e il Pd non sembrano per ora far tesoro dell’esperienza passata. In un Paese dominato dalle corporazioni e dalle consorterie come l’Italia è pura illusione pensare di cambiare la realtà con riforme calate dall’alto come è avvenuto nell’ultima legislatura. Non solo perché la burocrazia e il sistema si ribellano ma perché gli stessi destinatari delle riforme non comprendono i benefici che ne possono ricavare. Il caso classico è quello della Buona scuola: il governo Renzi ha risolto il problema del precariato scolastico che marciva da 20 anni e ha assunto 100 mila nuovi docenti ma anziché raccoglierne il consenso se li è incredibilmente trovati contro. Forse Renzi e il Pd dovrebbero chiedersi il perché e riscoprire il valore di quello che il sociologo Franco Ferrarotti chiama il riformismo sociale, cioè la costruzione delle riforme attraverso il coinvolgimento dei soggetti sociali a cui le riforme sono destinate in armonia con gli interessi generali di modernizzazione del Paese.

Insomma, la strada dell’alternativa democratica al populismo è lunga ma senza rispondere alle questioni cruciali che ne costituiscono l’essenza è destinata a restare un sogno. Che purtroppo svanisce all’alba.

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