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Siderurgia, da Taranto a Piombino la via crucis di Calenda

FIRSTonline

Pare che l’acciaio italiano non porti fortuna al ministro Carlo Calenda. Sul suo tavolo dove sono arrivati i disastri gestionali di Taranto e di Piombino si è cercato di mettere in ordine i risvolti economici, sociali e giuridici dei due casi per ricercare il “capo” di un filo intricato per rapportarlo al gomitolo. L’impegno ministeriale sembrava essere approdato a soluzioni credibili, concrete e di buona prospettiva.

Eppure, alla fine, il veleno di cui è cosparsa la coda del diavolo sembra buttare all’aria il lungo lavoro e dover ricominciare tutto daccapo. Prendiamo Taranto di cui sappiamo tutto: strategicità, centralità per l’industria meccanica italiana, impianto irrinunciabile. Con l’aggiudicazione ad Arcelor-Mittal e al Gruppo Marcegaglia si sapeva dell’ostacolo finale rappresentato dalla Commissione Europea e dalle ferree regole della concorrenza.

Non ci voleva molto a capire che la somma dichiarata per le produzioni di Taranto aggiunta a quelle europee in capo sia a Arcelor-Mittal che al Gruppo Marcegaglia sarebbero ricadute sotto l’occhio attento dell’Authority e alle spinte lobbistiche oppositive della concorrenza tedesca e dei fornitori internazionali del mercato più ricco del mondo. Forse valeva la pena di tener conto di questi fattori riservando un punteggio alle decisioni europee sia nelle clausole della gara che in quelle dell’aggiudicazione.

A tal proposito l’offerta di Jindal (che non ha un impianto in Europa) unita a quella di Arvedi oggi, se vincenti, sarebbero pienamente operative con un alleggerimento notevole degli impegni finanziari e gestionali del commissariamento pubblico. Ma tant’è. Il Gruppo Marcegaglia secondo Bruxelles dovrebbe lasciare la pur modesta quota nell’ alleanza con Mittal e il gigante indiano dovrebbe mettere sul mercato e liberarsi dell’insediamento piombinese della Magona d’Italia.

In questo “invito” europeo Piombino aggiungerebbe all’agonizzante orizzonte del gestore algerino delle Acciaierie ex Lucchini anche il destino dell’altra grande storia industriale della Città: la Magona, anch’essa un tempo perla dell’Impero della famiglia Lucchini. “Non contento di averci mozzato il capo una volta, il boia ci chiede di ripetere la decapitazione”. Così si commenta in piazza a Piombino. Ormai la Città, i Sindacati, la politica e l’economia dell’intera Val di Cornia sembrano rassegnate ad una deriva lenta e inesorabile delle sue attività siderurgiche e ad ammainare la secolare bandiera dell’acciaio.

C’è stanchezza oltre che scetticismo a fronte di un compratore algerino che non è mai riuscito a dare gambe al progetto di rilancio né tantomeno ossigeno alle asfittiche e vuote casse dell’ex Acciaieria. Dalla sua ha avuto sostegni, aiuti, anche politici, non indifferenti dalla Città e dalla Regione Toscana. È mancata soprattutto la leva finanziaria necessaria al rilancio forse anche a causa delle restrizioni del Governo algerino imposte al trasferimento dei capitali di Issad Rebrab.

Uno stallo ed una totale inazione che dura ormai da troppo tempo, segnalata dal Commissario Nardi e impugnata dal Ministro in prima persona come ragione sufficiente per annullare il contratto di concessione e ripartire da zero. Ad un Rebrab minacciato di sfratto, obbligato al ricorso legale che inchioderà ai codici e nelle aule dei Tribunali per molto tempo il destino dell’azienda, oggi si aggiunge la prospettiva di vedere la Magona d’Italia obbligata a passare di mano. A chi? Quando? Come?

L’azienda di trasformazione dei coils in prodotti di alto valore aggiunto non può prescindere da un partner in grado di offrire il laminato di base. E a fare coils in Europa non sono molti le imprese a meno che non si convinca Jndal ed Arvedi a tirarsi su le maniche e passare i loro progetti dalle sponde dello Jonio a quelle del Tirreno. Piombino, quindi, rientra dalla finestra, al tavolo del Ministero di Via Veneto con una complicazione in più.

Una dura prova per Carlo Calenda che ha nel Commissario Nardi e nei vertici di Federacciai degli interlocutori attestati sullo spezzatino delle Acciaierie (salviamo il treno vergella e quello delle rotaie) lasciando alla Città il destino della parte a caldo delle vecchie Acciaierie.

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