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L’orso russo spaventa anche la virtuosa Svezia che va alle elezioni rispolverando vecchie ricette

A Kivik, la cittadina sul Baltico nel sud est della Svezia dove trascorro questo scampolo di vacanza, è tutto un fare i bagagli. Le Volvo station wagon cariche di valige, muovono verso Stoccolma, Malmö, Lund. A Ferragosto tutto ricomincia. Da lunedì riaprono le scuole e si torna al lavoro. Parte anche la campagna elettorale: il 19 settembre gli svedesi votano e tutti i sondaggi prevedono la vittoria dei socialdemocratici. Jacob Wallenberg, erede della famiglia che controlla indirettamente circa la metà della borsa di Stoccolma (Ericsson, Abb, Electrolux, SAS fanno capo a Investor, la portaerei finanziaria del gruppo) teme una radicale svolta a sinistra e ha manifestato la preoccupazione sua e dei suoi pari. 

La coalizione moderata guidata da Frederik Reinfeldt non ha governato male, anzi ha assicurato a lungo un buon tasso di crescita mentre il resto d’Europa era in crisi nera (l’unico grave scivolone è colpa della banca centrale che ha rialzato i tassi lo scorso anno), ha aperto e modernizzato un welfare state ansimante, dove il tutto pubblico ha ridotto l’efficienza, appesantito i costi, abbassato il livello dei servizi, a cominciare dall’istruzione. Il sistema sanitario misto sperimentato a Stoccolma funziona, le cosiddette “free school” (sempre statali, ma autonome) hanno attratto gli insegnanti e gli studenti migliori. Però, dopo otto anni e due mandati, gli svedesi vogliono cambiare. 

Se tutto va come previsto il vincitore sarà un ex sindacalista, già capo dei metalmeccanici. Un Landini svedese? Non esattamente perché i metalmeccanici rappresentano l’aristocrazia operaia, meno radicale che in Italia. Tuttavia Kjell Stefan Löfvenis è un socialdemocratico duro e puro che promette più spesa pubblica e soprattutto più tasse. Il tema delle imposte è centrale nella polemica politica: anche un paese dove il mito dello stato sopravvive e con esso il mito di tasse elevate per avere servizi pubblici, lo scontento (non solo dei ricchi, ma dei ceti medi e dei lavoratori dipendenti) ha alimentato vari movimenti di protesta non solo all’estrema destra. Il partito delle donne, ancora nella culla, potrebbe finire in Parlamento e chiede che le tasse vengano usate in chiave femminista. Gli ecologisti, invece, per migliorare l’ambiente e chiudere (a ventiquattro anni dal referendum) le centrali nucleari che ancora forniscono tre quarti dell’elettricità. 

La frammentazione politica s’è fatta strada anche qui e c’è il rischio che nessuno ottenga una chiara maggioranza, dunque si parla con sempre maggior frequenza di formare una grande coalizione sul modello germanico, formula politica mai adottata, fino a ieri considerata tabù. E tuttavia ci sono problemi che nessun partito è in grado di risolvere da solo o con i tradizionali alleati. Il modello basato sul consenso, pilastro quasi secolare della Svezia, oggi richiede un allargamento al di là dei confini tradizionali destra/sinistra.

Un dibattito interessante, per ora tutto interno alla classe politica, ma può diventare molto più ampio di fronte alla questione che angoscia davvero la gente: l’escalation russa, le mire neoimperiali di Vladimir Putin. Qui “Ivan” è da sempre considerato il nemico pubblico numero uno. E adesso i peggiori incubi si stanno materializzando tanto che il governo ha aumentato le spese militari e ha deciso di allargare la leva obbligatoria per rafforzare gli effettivi dell’esercito. Il ministro degli esteri Carl Bildt è stato uno dei negoziatori dell’ingresso dell’Ucraina nella Ue e ha il dente avvelenato. Sul Financial Times ha scritto un veemente articolo per spiegare i pericoli del puntinismo a chi in Europa fa finta di non capire, cioè soprattutto ai tedeschi e agli italiani.

La Svezia non vuole Federica Mogherini come alto rappresentante della politica estera e di sicurezza. L’opinione degli addetti ai lavori è che la ministro degli esteri ha commesso un errore grave, non solo di forma ma di sostanza, quando ha reso omaggio a Putin. Non ha agito come esponente dell’intera Ue e ancor oggi continua a non parlare con la voce comunitaria nonostante l’Italia sia presidente di turno. Forse è esagerato considerare uno sgarbo quella che è stata probabilmente solo una gaffe, ma non bisogna sottovalutare la sensibilità dei paesi nordici e di quelli vicini alla Russia. Per loro siamo già in una nuova guerra fredda e non sono ammesse leggerezze né, tanto, comportamenti da principianti.

In fondo è questo l’atteggiamento nei confronti dell’Italia renziana. Sono finiti i tempi di Silvio Berlusconi signore oscuro della telecrazia anche agli occhi dei moderati e dei conservatori. Ma sono passati presto anche quelli di Mario Monti, la speranza tecnocratica che piaceva al governo di centro-destra. La clamorosa vittoria di Matteo Renzi ha sorpreso chiunque: l’energia, la giovinezza, le donne (la quota del 50% nel governo va al di là delle aspettative persino delle femministe). Ma, concreti come sono, poco abituati a voli pindarici e promesse mirabolanti, visto il fumo gli svedesi vogliono vedere anche l’arrosto. I dati sulla congiuntura italiana che hanno anticipato la frenata dell’intera Eurolandia, mettono in allarme il mondo politico e quello degli affari. 

Tutti, dagli economisti al cittadino medio, si chiedono perché la cura europea non ha funzionato. La Svezia è un paese virtuoso con debito pubblico basso (40% del pil) e alta crescita (il prodotto lordo è salito di 10 punti dal 2006), tuttavia l’amara medicina ha creato anche qui acute divisioni. Le differenze sociali sono rimaste a lungo nascoste agli occhi del pubblico e mitigate dalle politiche redistributive, adesso appaiono alla luce del sole, per le strade circolano sia le Maserati sia i barboni. La disoccupazione è scesa, però resta bloccata a quota otto per cento, considerata troppo alta. Nonostante un mercato del lavoro dove la flessibilità prevale ormai sulla sicurezza, il pieno impiego appare un miraggio lontano. 

Prevale a questo punto la spinta a recuperare le ricette del passato, quelle ante-crisi. Il pendolo si sposta ancora. Non funzionerà, dicono i vecchi saggi, ma nessuno sa proporre nulla di nuovo. L’Unione europea vacilla, l’orso russo affila le unghie, l’immigrazione ha trasformato le città dove le rivolte nelle periferie sono ormai ricorrenti, sicurezza e protezione diventano le due priorità domestiche. “Sì, siamo rimasti a lungo appartati nel nostro paradiso nordico – mi dice un amico regista che ha lavorato a lungo nel continente – ma non siamo un’eccezione. Crisi, immigrazione, sicurezza è il triangolo perverso che blocca l’Europa intera”. Le campane del Baltico, insomma, suonano anche per noi.

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