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L’incompetenza al potere mette a rischio la democrazia

Imagoeconomica

In tutto il mondo occidentale, non solo in Italia, è in atto un’ondata di sentimenti negativi nei confronti del sapere, dell’istruzione, degli esperti e degli intellettuali. Chiunque abbia studiato o fatto esperienze di lavoro significative e formative viene bollato come élite e rifiutato. Siamo orgogliosi di non sapere le cose e siamo arrivati al punto di considerare l’ignoranza, soprattutto per quel che riguarda la conduzione della politica, una virtù. È un sentimento che probabilmente c’è sempre stato in certi settori della società, ma che negli ultimi anni è venuto prepotentemente alla luce fino a essere accettato da una buona maggioranza dei cittadini. E la politica lo ha percepito e cavalcato, tanto che in molti paesi, primo fra tutti l’Italia, la polemica contro i professoroni, i plurilaureati, i tecnici delle autority indipendenti dai voleri del popolo, è particolarmente accesa. Ma i politici attuali sono il risultato di questa spontanea emersione dell’ignoranza, oppure la stessa classe politica del passato ha favorito con i suoi comportamenti l’emersione dell’incompetenza quale sentimento prevalente della massa dei cittadini?

Irene Tinagli, deputato nella passata legislatura, un PhD conseguito all’Università di Pittsburgh, prova a sciogliere questo interrogativo in un ampio e interessante saggio pubblicato da Rizzoli “La Grande Ignoranza – L’ascesa dell’incompetenza e il declino dell’ Italia“, dove, tra gustosi episodi che testimoniano la spaventosa avanzata dell’ignoranza tra i nuovi politici e l’ipocrisia di quelli vecchi, si affronta il problema molto serio della crisi delle nostre democrazie occidentali, i danni che ne derivano per gli stessi cittadini, puntando infine ad aprire un serio dibattito su questi temi per individuare alcuni possibili rimedi.

Dopo aver esaminato il progressivo declino del grado di istruzione dei nostri parlamentari, il saggio di Tinagli si addentra nel complesso rapporto tra il mestiere del politico e quello dei tecnici, mettendo in rilievo la grande distanza che esiste tra il rigore dei competenti e la necessità di ricercare il consenso da parte dei politici, passando per il ruolo dei mezzi di informazione, per le modalità operative in base alle quali i partiti tradizionali selezionavano la propria classe dirigente e per le prassi concrete con le quali operano governi e parlamenti.

Tra i tanti episodi che illustrano la crescente separazione tra competenza e politica, Irene Tinagli cita un episodio che mi vede direttamente coinvolto e che si riferisce a quando eravamo colleghi nella commissione Lavoro della Camera dei deputati. Durante una discussione su una proposta di legge che prevedeva il ripristino dell’articolo 18, i deputati di tutti i partiti sostenevano che a causa di quell’abolizione i licenziamenti erano grandemente aumentati. Io intervenni per sostenere che non era vero e che anzi i licenziamenti erano diminuiti, senza avere a disposizione in quel momento i dati precisi. Dati che Tinagli era riuscita nel frattempo a trovare e che quindi descrisse puntualmente agli altri componenti la Commissione e che mi davano pienamente ragione. Ma alla fine il presidente on. Damiano le disse che in certe tematiche non è “questione di dati ma di principi”.

Ma ricordo ancora un secondo episodio che ci vide schierati dalla stessa parte e che riguardava la riforma della governance dell’Inps e dell’Inail. La riforma predisposta da Damiano ed appoggiata sia dalla sinistra che dai 5 Stelle oltre che, almeno in parte dalle destre, prevedeva tra l’altro la costituzione di un Consiglio di amministrazione di 5 componenti, tutti a tempo pieno. Io sostenevo che in quel caso si sarebbe creata una governance inefficiente dato che i consiglieri si sarebbero trasformati presto in altrettanti amministratori delegati che si soprapponevano al presidente ed al direttore generale, rendendo la gestione dell’Istituto quantomeno inefficiente, se non impossibile. Ma anche in questo caso prevalse la necessità di accontentare gli appetiti di politici e sindacalisti rispetto alle più elementari regole di una corretta governance raccomandate da tutti gli esperti della materia. Per fortuna allora non se ne fece nulla perché il governo Gentiloni si oppose fermamente ad una simile riforma. Ora però è stata pari pari ripresa da Di Maio e Salvini ed inserita nel decreto per il Reddito di cittadinanza e Quota 100. C’è continuità nell’incompetenza!

Ma si tratta veramente di ignoranza o è furbizia politico-clientelare? Sicuramente l’incompetenza gioca brutti scherzi quando si varano delle leggi allo scopo di ottenere certi risultati (ad esempio maggiore occupazione), ma poi si vanno a toccare meccanismi che in realtà portano a risultati opposti a quelli voluti. Più in generale questo capita quando si propongono ricette semplici per uscire dalla crisi (spendere più denaro pubblico preso a prestito) e non ci si accorge che a causa della sfiducia che questo ingenera nei mercati, il risultato non sarà l’uscita dalla crisi, ma, al contrario, il ritorno alle fasi più nere della recessione. Come sta appunto succedendo.

Ma le difficoltà oggettive per un più equilibrato rapporto tra politici ed esperti sono numerose. Bisogna dire in generale che la persona ignorante o incompetente risulta quasi sempre più simpatica, più naturale, più fresca nel modo di porgersi e di comunicare, insomma più vicina alla gente comune. Sa trasmettere con naturalezza messaggi semplici, apparentemente efficaci, additare colpevoli, e proporre soluzioni, magari irrealizzabili, ma chiare, senza tentennamenti o dubbi. Là dove il dubbio è il pane quotidiano dell’esperto che tende a fare ragionamenti sfumati, probabilistici, privi di quelle certezze che il pubblico, specie quello televisivo, vuole sentirsi raccontare. Si crea così un circolo vizioso tra il politico ignorante che non prova vergogna a raccontare balle perché non ne è consapevole, ed il pubblico poco competente ma disilluso o arrabbiato, che spera che qualcuno tagli i nodi che imbrigliano la propria esistenza anche con metodi sbrigativi.

Uscire dai rischi che l’era dell’incompetenza comporta per la democrazia (è il titolo di un famoso saggio del professore americano Tom Nichols) non sarà facile. Tinagli esclude che la soluzione sia quella di sostituire i politici incompetenti con i tecnici. È una strada che l’Italia ha già sperimentato e non ha funzionato. Occorrono probabilmente una serie di modifiche nelle istituzioni e nel loro funzionamento con una riduzione del ruolo dello stato centrale a favore di enti locali e non le Regioni ma i Comuni che sono più vicini ai cittadini e non possono aspirare a ruoli di indirizzo politico generale.

Bisognerà riformare i compiti del Parlamento, puntando molto di più sul controllo dell’operato del Governo e sul monitoraggio dell’efficacia delle leggi approvate, aumentare la trasparenza da parte di chi è chiamato a ricoprire incarichi politici esaminando non solo lo stato patrimoniale del candidato, come già avviene, ma anche il suo curriculum di studi e le sue esperienze professionali. Bisogna poi puntare sulla riforma dell’istruzione, rendendola continua non solo per le esigenze del mercato del lavoro, ma anche per avere cittadini consapevoli delle implicazioni a medio termine dei loro comportamenti. Deve tornare in auge per i politici la vecchia massima einaudiana del “conoscere per deliberare”, mentre gli elettori devono chiedere ai loro rappresentanti più che piccoli favori, una maggiore lungimiranza dal preservarli dai grossi rischi di crisi come quella nella quale siamo finiti dopo il 2009 e da cui non siamo ancora completamente usciti. Forse qualcosa si muove – conclude Tinagli – perché ci stiamo gradualmente rendendo conto che se pure le persone competenti commettono errori, gli incompetenti ne commettono di più e più dannosi.

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