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Italexit, Troika, Grecia, Argentina: quanti spettri tra di noi

ImagoEconomica

Il 27 febbraio 1953, a conclusione di un anno di lavori della Conferenza di Londra sul debito estero tedesco, l’Italia, insieme a 15 altri paesi, condonò alla Germania la metà dei debiti che questa aveva contratto tra il 1919 e il 1945. Il pagamento dell’altra metà, pari a 16 miliardi di marchi, fu dilazionato nei trent’anni successivi. Per usare un’ulteriore cortesia verso chi aveva pur sempre provocato due guerre mondiali si stabilì che i rimborsi annuali non avrebbero mai superato il 3 per cento dell’export tedesco e sarebbero stati sospesi se la Germania si fosse trovata in passivo commerciale. Queste clausole fornirono ai creditori un forte incentivo a comprare prodotti tedeschi e accelerarono in modo decisivo la ricostruzione della parte occidentale del paese.

Quanto alle riparazioni della seconda guerra mondiale, si stabilì di rinviarne il pagamento all’unificazione tedesca, che nel febbraio 1953, con Stalin ancora in vita, appariva un evento impossibile. Quando l’unificazione si realizzò inaspettatamente nel 1990, il debito fu quasi completamente cancellato. Rimasero 239 milioni di marchi simbolici e pure questi furono dilazionati in vent’anni, tanto che la Germania finì di pagare nel 2010.

La memoria storica tedesca, come quella di tutti, è selettiva. Ricorda certe cose e cerca di dimenticarne altre. Tra le cose che la Germania ricorda poco volentieri ne vogliamo citare due.

La prima è che l’atteggiamento della Troika dei creditori Stati Uniti-Gran Bretagna-Francia, che supervisionò l’economia tedesca dal 1919 alla prima fase della guerra fredda (con l’eccezione dei 13 anni del nazismo), fu sempre decisivo, nel bene e nel male, nell’indirizzare le sorti della storia tedesca. Quando la Troika fu dura e vendicativa la Germania cadde puntualmente nel caos e lo esportò nel mondo. Quando fu invece illuminata la Germania rifiorì in un attimo.

Si consideri la storia della repubblica di Weimar, che spesso viene ricordata come un unico e che fu invece divisa in tre fasi completamente diverse tra loro. La prima, da Versailles all’iperinflazione (1919-1923), vide una Troika durissima e coincise non a caso con una serie infinita di tentativi di colpi di mano insurrezionali di destra e di estrema sinistra (questi ultimi con il rischio di una saldatura con la Russia rivoluzionaria che avrebbe cambiato la storia d’Europa). Quando la Reichsbank, seguendo le suggestioni protokeynesiane del cartalismo, provò a lenire le pene della popolazione stremata stampando denaro senza limiti, l’inflazione che ne seguì ridusse ulteriormente la capacità della Germania di servire il suo debito estero.

In un soprassalto di intelligenza la Troika prese atto della situazione e ridusse drasticamente le sue richieste di austerità. Insieme alla fine istantanea dell’iperinflazione questo produsse la seconda fase di Weimar (1924-1929), i luminosi Goldene Zwanziger della ripresa frenetica, dell’estrema vivacità politica e intellettuale e del modernismo radicale che ancora oggi ammiriamo.

La luce si spense però di nuovo dal 1929 al 1933, quando le banche americane chiusero improvvisamente i rubinetti del credito e la Troika ricominciò a martellare la Germania per cercare di estrarne quello che poteva. E così, mentre uno alla volta tutti iniziavano a svalutare per uscire dalla Grande Depressione, alla Germania si impose di mantenere la parità con l’oro, in modo da renderla meno competitiva e rubarle quote di mercato.

Per rimanere competitiva a cambio fisso la Germania decise allora una svalutazione interna del 20 per cento, tagliando in pari misura le retribuzioni pubbliche e private, le pensioni e i servizi sociali. Poiché nessun
partito volle prendere la responsabilità di queste misure, Hindenburg chiamò il tecnico Brüning e formò un governo del presidente che, avendo zero voti al Reichstag, governò esclusivamente per decreto.

E qui veniamo al secondo punto che la memoria storica tedesca cerca di dimenticare, l’inflazione male relativo e la deflazione male assoluto. La Germania ricorda ossessivamente a se stessa e al mondo l’iperinflazione del 1923 e con questa cerca di giustificare il suo sadomasochismo monetario e fiscale di oggi. Fa quasi capire che Hitler arrivò al potere per colpa dell’inflazione, quando i nazisti nelle due elezioni del 1924, con la ricchezza finanziaria completamente distrutta, si fermarono al 3 per cento (mentre i partiti di sistema furono largamente confermati) e scesero addirittura al 2 per cento nel 1928. I nazisti esplosero invece sotto l’austerità di Brüning e si presero il Reichstag nel 1933. Mentre l’inflazione aveva colpito a morte i creditori ma aveva almeno fatto un enorme favore ai debitori (chi aveva un mutuo si trovò la casa regalata), la deflazione aveva colpito ricchi e poveri, industriali e operai, banche e depositanti.

Abbiamo parlato di Germania, naturalmente, per parlare di Italia. Aleggiano nell’aria gli spettri della deflazione greca e dell’inflazione argentina, di una Troika pronta a un governo semicoloniale all’assalto della ricchezza privata o di un salto nel buio fuori dall’euro. Potremo sbagliare, ma al momento la vivacità dello spread da una parte e quello dei progetti di spesa del governo dall’altra sembrano soprattutto un grande flettere di muscoli e agitare di clave per prendere le misure dell’interlocutore. E così lo spread un giorno sale e il giorno dopo scende (facilitato nella volatilità dalla liquidità globale che comincia a dare i primi segni di affaticamento), mentre il governo lancia un ballon d’essai dopo l’altro e alterna toni feroci e toni miti e ragionevoli. Dietro le quinte immaginiamo però una trattativa durissima già iniziata sul tre e qualcosa di disavanzo su cui, volendo, si potrebbe raggiungere un accordo velocemente se non ci fossero di mezzo facce da perdere o salvare ed elettori da perdere in Germania e guadagnare in Italia e viceversa.

Nessuno, se ragionevole, vorrà spingersi fino alla rottura in tempi brevi. Le elezioni europee di marzo potrebbero iniziare a cambiare il volto del continente e dare una robusta minoranza alle forze antisistema. Al governo italiano potrebbe convenire aspettare di avere controparti più morbide in Europa e alle forze di sistema dovrebbe convenire non presentarsi alle elezioni con un progetto continentale al collasso.

Ma anche dopo il marzo 2019 sarà tutto da vedere se negare il 3 per cento all’Italia varrà davvero la fine dell’euro (o un euro a 1.50 in tempo di dazi per chi ci rimane dentro) e se, da parte italiana, accontentarsi di un 2.5 sia peggio che saltare nel vuoto. Dopo tutto, ci sono molte altre cose utili alla crescita che un governo che si dice del cambiamento potrebbe fare, a partire dalla deregulation, di cui però non si sente parlare.

In attesa di risultati di trattative europee che potrebbero andare avanti anni, fa piacere vedere il tono positivo delle borse globali. Non è tutto oro quel che luccica, tuttavia. C’è molta chiusura di posizioni  esageratamente corte di bond ed esageratamente lunghe di petrolio che crea un effetto ottico di bond tranquilli e inflazione di nuovo calma. Questo effetto verrà meno tra qualche tempo, ma intanto è perfettamente legittimo goderselo.

Con i Treasuries più rilassati la spinta rialzista sul dollaro si affievolisce. A impedire un recupero rilevante dell’euro sarà comunque la questione italiana, che nella nostra ipotesi, non si risolverà in tempi brevi. Proprio per questo la Bce andrà avanti lo stesso con il suo programma di azzeramento del Qe, ma si guarderà bene dall’alzare i tassi ancora a lungo e non proverà nemmeno a smontare il Qe come sta invece facendo la Fed.

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