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Draghi-Macron-Scholz alla prova del salto dell’Europa

Imagoeconomica

La Germania sta per svoltare. Si chiude l’era della Kanzlerin, Angela Merkel. È oggettivo. E  se le urne confermeranno i sondaggi, il Partito socialdemocratico, guidato da Olaf Scholz, tornerà a guidare il governo. Dopo 16 anni.

Il conto giusto è un altro: negli ultimi 41 anni l’SPD ha avuto il Cancellierato solo in otto. In altre parole, la sua vittoria è un evento raro. Già di per sé, quindi, epocale.

Lo sarà anche nei contenuti e nella filosofia? Non solo all’interno, ma soprattutto all’esterno, e in particolare verso l’Unione europea, che è stata germanizzata secondo i principi rappresentati dall’ideologia dell’ordoliberalismo.

Quest’ultimo è un ircocervo del pensiero economico, intriso di moralismo. Tutt’altro affare dalla matrice morale, intesa come etica comportamentale (Adam Smith), della scienza economica, che studia l’uomo nella sfera dell’organizzazione sociale della produzione, del reddito e della domanda di beni e servizi.

Sarà determinante l’esito di queste elezioni, come lo fu quello che nel 1998 portò al potere Gerhard Schröder. Il quale, rieletto nel 2002, archiviò la Germania dei sensi di colpa per le due guerre mondiali e per l’olocausto. E ne decretò l’europeismo come libera scelta, e non come dovere per volontà di riscatto da quella colpa. Parlando, per la prima volta, di non irreversibilità della scelta europeista.

La questione del rapporto tra la quarta economia del Mondo, con un PIL doppio di quello dell’Italia, e l’Unione europea ispira l’ultimo libro di Giangiacomo (Gianni) Nardozzi, il più difficile: Una nuova Germania per l’Europa? L’economia e l’animo tedesco (Brioschi Editore, pagg. 160, 16,00 euro).

È il più difficile perché Nardozzi, economista che ha a lungo studiato le peculiarità del modello tedesco, soprattutto nei legami tra finanza e industria, si inoltra nel terreno minato della psicologia di un intero popolo. Non quella dei singoli individui, già ben arata (non solo negli ultimi lustri: in fondo anche Smith era un comportamentalista, per non parlare di John M. Keynes). E, come sanno tutti gli studiosi, ricondurre la soluzione delle questioni economiche ad altra sfera finisce per apparire come un’ elusione.  

Chapeau per il coraggio! E per la spiegazione storico-culturale di quella psicologia. Nardozzi, infatti, riconduce la psiche (più che lo spirito) tedesca all’attrazione-diffidenza verso i popoli latini, alla paranoia da paura del mondo esterno, alla rivendicazione romantica dell’unificazione ottocentesca (una sorta di Risorgimento italiano, ben rappresentato dalle parole dell’inno nazionale) e, anche, alla collocazione geografica («questa terra di mezzo tra Est e Ovest, Nord e Sud»).

Se, infatti, la storia è maestra di vita, la geografia è la madre della storia. Dunque, è gran maestra.

La conformazione del territorio crea le condizioni per lo sviluppo. Dove ci sono pianure e acqua, le civiltà si sono sviluppate prima e più rigogliosamente. E i confini naturali, segnati da barriere fisiche come le catene montuose e i mari, hanno prodotto coesione, salvaguardando i tratti distintivi di un popolo da infiltrazioni esterne. Per non parlare di invasioni.

Tra i tratti distintivi anzitutto c’è la lingua e, quindi, la rappresentazione del mondo (Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus). Dunque, lo sviluppo di una cultura comune. Sebbene la stessa unificazione linguistica veda il prevalere di un volgare su un altro (Dante e Manzoni insegnano).

È come se i luoghi avessero una propria coscienza e plasmassero le donne e gli uomini a propria immagine e somiglianza. Attraverso il paesaggio, il clima, la protezione o meno dalle orde straniere. Una visione, che, in fondo sarebbe piaciuta a Giacomo Becattini, il grande menestrello dei distretti industriali italiani, che in tal senso, ma con una matrice diversa, titolò l’ultima opera della sua vita (La coscienza dei luoghi. Il territorio come soggetto corale, Donzelli, 2015).

Un territorio aperto induce paura di devastazioni e violenze, da parte di eserciti che sbucano dalle foreste di cui ancora oggi il suolo tedesco è ricco. Come dimenticare la Guerra dei Trent’anni? O quelle napoleoniche?

D’altra parte, se non ci sono confini naturali poco permeabili, l’identità nazionale deve essere fondata su valori ideali e artificiali. Il mito dello spirito germanico è stato “costruito” al fine di unire sotto la sua bandiera popoli di territori assai lontani e diversi, anche per vicende storiche vissute. Accomunati sì dalla lingua, che tuttavia non era un coagulante sufficientemente potente.

Nardozzi  scava nell’inconscio tedesco per comprendere la tortuosità del modo di ragionare in economia, non meno che in politica estera, soprattutto verso i partner europei. Un modo di ragionare che guarda agli alberi più che alla foresta. Che ignora gli effetti sistemici e i boomerang di misure e regole adottate e imposte agli altri (grazie al suo soverchiante potere contrattuale), ispirandosi a logiche micro da buon padre di famiglia, non in base al risultato complessivo e macro (dove l’insieme è superiore e ben diverso dalla somma delle parti).

Per esempio, il potere della Bundesbank, quasi uno «stato nello stato», affonda le radici sul bisogno di stabilità, in questo caso monetaria, di rassicurazioni e di certezze del popolo tedesco, che assegna un valore totemico alla stabilità dei prezzi. Quel potere è stato così forte, prima dell’arrivo dell’euro, da incidere sulla politica valutaria e sulla politica estera.

D’altronde, come insegna Harold James, nell’euro convivono conflittualmente due culture. La prima, della Germania e dei paesi satelliti, privilegia le regole, la responsabilità, la solvibilità e l’austerità. La seconda, predominante nei paesi latini, è imperniata su discrezionalità, solidarietà, liquidità e stimolo alla domanda.

Con Schröder la Germania ritrova le certezze in sé, nella propria superiorità. In Europa afferma il metodo intergovernativo, dove vince il più forte, in spregio allo spirito comunitario. Più che un’integrazione tra pari, diventa un’imposizione di regole, con eccezioni (come nell’opera di Bertold Brecht, se ci è consentito l’accostamento).

Eccezioni per i paesi ritenuti affidabili (nord-europei) o insostituibili (architrave franco-tedesca). Regole per i mediterranei. Da applicare talmente rigidamente (crisi dei debiti sovrani), da causare una nuova profonda recessione, con danni permanenti al tessuto socio-economico e alla stabilità politica dei paesi “indisciplinati”. Ma anche autoinfliggendosi notevoli perdite (crollo dell’export verso i PIIGS).

Un capolavoro di applicazione del binomio regola-eccezione è stato quel mostro economico-finanziario che si chiama bail-in, ossia le banche possono e debbono fallire, facendo pagare il conto non solo agli azionisti, ma anche agli obbligazionisti e perfino ai correntisti con depositi oltre un certo ammontare. Dimenticando la famosa scena nel film Mary Poppins che narra come si scatena la corsa a ritirare i soldi da una banca.

Chi scrive discusse, nel gennaio del 2016, degli effetti sistemici del bail-in con il principale consigliere economico di Wolfgang Schäuble. Il quale ammise, candidamente, che era stata una decisione politica. Presa per dare in pasto le banche all’opinione pubblica, che doveva pur trovare un capro espiatorio dopo la crisi finanziaria del 2008-09.

Ancor più stupefacente fu l’osservazione che quel consigliere fece di fronte al dato che mostrava che le attività nette della Germania verso il resto del mondo erano del 20% inferiori al valore del risparmio accumulato attraverso il surplus corrente: ho sempre pensato che investiamo male il nostro risparmio.

Per inciso, anche l’Italia è entrata nel novero dei Paesi formiche che finanziano i Paesi cicala. Un altro mito tedesco che cade. Ma per i tedeschi le cicale non sono solo dissennate nella gestione economica, ma anche dissolute nella vita quotidiana. Peccaminosamente. La Roma papalina e corrotta avversata da Martin Lutero.

L’eccezione, riguardo al bail-in, è consistita nell’aver difeso le banche tedesche, facendo in modo che recuperassero gran parte  dei prestiti dati alla Grecia prima di annunciare a fine 2010 le pesanti condizioni della ristrutturazione del suo debito. E, precedentemente, stanziando enormi fondi a sostegno di quelle stesse banche durante la crisi finanziaria 2008, perché avevano acquistato grandi quantità di titoli subprime statunitensi ad alto rendimento e alto rischio, al fine di staccare lauti dividendi ai Laender loro azionisti di maggioranza; Laender le cui entrate erano state ridotte dall’austerità.

D’altra parte alla costruzione europea non possono che contribuire tutti i paesi membri, a cominciare dai maggiori. E non per una questione di pariteticità retorica, ma per una genuina condivisione degli obiettivi e per il superamento, in vista di un superiore fine comune, degli steccati culturali di ciascuno.

Perciò, se è giusto chiedere alla Germania di cambiare, tale cambiamento dipende anche dall’altrettanto definitiva europeizzazione della Francia e dell’Italia. Per la Francia si tratta di abbandonare definitivamente la grandeur di De Gaulle in politica estera. L’Italia, invece, è chiamata al rispetto degli impegni assunti con il PNRR.

È in corso un esperimento che segnerà la storia mondiale. Sono stati capovolti i termini dello scambio compiti a casa/aiuti europei. Se saremo capaci di fare la nostra parte, non solo ne guadagneremo come benessere interno, ma faremo fare un salto all’evoluzione europea, sdoganando la Transfer Union, gli eurobond e la politica di bilancio unica.

Al terzetto Draghi-Macron-Scholz spetta il ruolo ispirato nella visione e determinato nell’azione che ebbe quello formato da Adenauer-De Gasperi-Schuman. Hic Rhodus, hic… salta Italia!

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