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Transizione ecologica: i soldi ci sono, ma bisogna correre

FIRSTonline

La buona notizia è che il cambio di passo del Governo Draghi si vede e si sente: l’abbraccio nefasto della burocrazia si allenta, il sistema delle autorizzazioni prova a uscire dal pantano, gli obiettivi e perfino il percorso si fanno meno nebulosi. Ce la faremo rispettare gli impegni per rendere credibile l’transizione ecologica raggiungendo gli obiettivi al 2030 e al 2050 che ci impegnano con noi, con l’Europa e soprattutto con il Pianeta? Ecco la notizia meno buona: la sfida è quasi impossibile. Vale la pena provarci? Certamente sì. Perché dobbiamo. E perché non ci sono alternative. Ma per cambiare davvero il passo occorre innanzitutto focalizzare i termini della questione.

IL MACIGNO DEI RITARDI

Magra consolazione: gli altri paesi non fanno meglio di noi per rendere credibili i nuovi e più ambiziosi obiettivi di decarbonizzazione fissati dall’Unione Europea al 2030, ovvero il taglio del 55% delle emissioni rispetto al 1990 vincendo sulla maggiore efficienza del sistema energetico per ridurre la domanda di energia dell’8% al 2050 senza frenare lo sviluppo. Anzi, c’è chi fa peggio. L’Italia non era partita male. Nel 2018 aveva ridotto le emissioni di gas serra del 22% rispetto al 1990 anche se ha fatto fatica a distaccarsi nel gruppo di testa per le missioni assolute, per quelle pro capite e per unità di Pil. Siamo stati gli unici tra i paesi europei ad avere comunque raggiunto già nel 2019 gli obiettivi sulle rinnovabili al 2020 con oltre il 18% i consumi finali rispetto all’obiettivo del 17%.

Dei partner europei ben 13 erano ancora lontani dagli obiettivi nel 2019, compresi la Francia e la Germania, che continua a godere di una benevolenza un po’ sfuocata nelle analisi internazionali: sbandiera l’impegno delle rinnovabili ma continua a costruire nuove centrali a carbone, con cui continua a produrre un terzo della sua elettricità, perfino con il ricorso ai fumi mefitici dell’antracite e della lignite. Mentre l’Italia è quantomeno volenterosa. Non lontana dai prossimi traguardi? Purtroppo non è così. Non solo per colpa della pandemia “nel 2020 la nuova potenza installata delle fonti rinnovabili – rimarca Livio De Santoli, rettore dell’Università la sapienza di Roma e presidente del corridoio coordinamento Free per le rinnovabili – è stata inferiore a 1 gigawatt. Di questo passo gli obiettivi delle rinnovabili al 2030 saranno raggiunti tra cento anni”.

TENTATIVO DI RISCOSSA

Il ministro della transizione ecologica Roberto Cingolani è perentorio: “Per raggiungere la decarbonizzazione del 55% serviranno 70 gigawatt di rinnovabili nei prossimi nove anni, 8 GW l’anno”. Praticamente l’integrale rinnovo, o quasi, del nostro scenario di approvvigionamento elettrico. In nome di risorse finanziarie che sulla carta non mancano, visto che il solo Pnrr (il piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che canalizza le nuove sovvenzioni europee post-Covid) dedica alla missione circa 16 miliardi l’anno, 40 milioni al giorno sui 100 milioni che andranno impiegati per mantenere integralmente la promessa, da realizzare a colpi di una generale elettrificazione dei consumi energetici all’insegna dell’efficienza e della compatibilità ambientale, facendo perno tra l’altro di un ambizioso piano per la mobilità elettrica.

L’impresa italiana si attrezza, consapevole dei benefici effetti della nuova corsa anche sullo sviluppo di nuove aree di business. Carlo Tamburi, direttore per l’Italia del gruppo Enel ripete: “entro il 2025 riusciremmo a produrre l’elettricità solo da fonti rinnovabili del nostro mantra elettrificazione dei consumi, nella mobilità come nelle abitazioni”. E la sua impresa promette di accelerare la totale dismissione del carbone e la corsa a un sistema integrato all’insegna delle nuove intelligenza del sistema energetico, fatto di scambi tra produttori, comunità energetiche integrate, le grandi reti e sistemi di accumuli che coinvolgeranno addirittura le singole automobili elettriche. Serve un passo veloce. Siamo drammaticamente lenti.

PROMESSE E FRENI

L’estenuante burocrazia, il groviglio giudiziario nato dal malaffare ma anche dalla difficoltà nel rispettare le normative, le conseguenti paure e gli inevitabili ritardi. Ecco che da noi il processo autorizzativo segnava, prima dei primi provvidenziali provvedimenti messi in campo dal Governo in carica, una durata media di sette anni. La metà dei processi si perdono così per strada: esausti, poi morti tra timbri e scartoffie. D’ora in poi si dovrà penare al massimo due anni, come impone la nuova direttiva rinnovabili e come vuole garantire il nuovo decreto semplificazioni che mette in campo alcune misure di buon senso che sicuramente sarebbero dovute arrivare prima, come l’interlocutore unico, la centralizzazione degli esami delle sovrintendenze, il ponte normativo per il completamento della riforma del codice degli appalti.

Tutto ciò non basta e non basterà, se non riusciamo a focalizzare sia la priorità degli obiettivi da fissare lungo la strada sia le correzioni da fare a quel che è stato già fatto (o non fatto). Dai moniti dei migliori esperti sono giunte utilissime indicazioni . Altre se ne aggiungono. Sull’eolico ad esempio. Vero è che il nostro paese non offre grandissime opportunità all’eolico su terra, che per i paesi nordeuropei rappresenta una ricca miniera energetica. Ma siamo messi bene, anzi molto bene, per l’eolico offshore, che fin qui ha goduto poche attenzioni. Il Governo se ne è accorto adesso. Tant’è che il ministero della transizione ecologica ha aperto formalmente la corsa alla tecnologia dell’eolico galleggiante avviando una mappatura dei soggetti disponibili a realizzare i progetti.

Arriverà prestissimo (nelle intenzioni del Governo) un processo di valutazione e decisione per accedere ai finanziamenti sia nazionali che dell’Unione Europea. Tutto ciò con i doverosi scongiuri: c’è infatti da scommettere sulla nascita (rapidissima, in questo caso) degli immancabili “comitati per la tutela di chi sa che cosa” che avranno molto da ridire sui progetti di piazzare i generatori in mezzo al mare. La strategia della presumibile opposizione sarà sicuramente la stessa di quella applicato per un’altra nefandezza italiana: l’opposizione preconcetta ai termovalorizzatori. Preconcetta ed efficacissima, evidentemente. Tant’è che negli ultimi piani strategici governativi di termovalorizzatori se ne parla poco o nulla, nonostante in tutta Europa sia la soluzione per ottenere i classici due piccioni con una fava: la corretta ed efficace gestione dei rifiuti (in sinergia naturalmente con la raccolta differenziata con una strategia complessiva di economia circolare) e la produzione praticamente gratuita di una quota significativa di energia elettrica.

Le tecnologie sono mature, le garanzie ambientali sono assicurate. Basterebbe dare un’occhiata a quello che combinano i danesi con l’impianto modello di CopenHill nel bel mezzo di Copenhagen, dove nulla sbuffa e nulla odora mentre sul grande tetto dell’impianto è adagiata una pista sintetica da sci realizzata da chi? Da noi italiani. Per la precisione dalla Neveplast, azienda di Albano Sant’Alessandro alle porte di Bergamo. Da noi no? Un vero peccato.

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