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Sindacati e contratti, una legge per applicare l’art. 39

È possibile che la prima riforma senza spesa realizzabile da questo Parlamento e da questa maggioranza di Governo sia quella di rendere applicabile l’articolo 39 della Costituzione per dare efficacia generale a tutti i contratti collettivi sottoscritti da imprese e lavoratori legittimi titolari della rappresentanza, assumendo il principio che la volontà della maggioranza si estende a tutti?

Sarebbe un’ottima idea, a condizione di accettare come normalità la realtà esistente, fatta da un sistema di relazioni contrattuali articolate in cui convivono contratti collettivi nazionali tradizionali, sottoscritti da associazioni datoriali e organizzazioni sindacali, con contratti aziendali sottoscritti da singole imprese e da sindacati rappresentativi dei lavoratori interessati.

Tenendo anche conto delle intese già raggiunte tra alcune tra le più importanti associazioni imprenditoriali e sindacali, tutti i contratti dovrebbero essere approvati dalla maggioranza dei delegati interessati e validati da referendum, se richiesto dal sindacato o da una parte significativa di lavoratori. In questo modo, pur abrogando l’ultimo comma dell’articolo 39, una legge ordinaria garantirebbe i due cardini della norma costituzionale: la libertà di contrattazione e il principio di maggioranza.

Da questo punto di vista non avrebbe alcun rilievo il numero di contratti registrati in sede Cnel, di cui solo una piccola parte è in odore di “pirateria”, quanto la loro legittimità, che richiederebbe per l’appunto il rigoroso rispetto di alcune procedure. L’elemento centrale di questo impianto contrattuale consiste in un approccio pluralista al sistema delle relazioni industriali che parta dal principio di prossimità che trasferisce l’esercizio di una facoltà come quella della contrattazione il più vicino possibile ai lavoratori interessati e all’impresa.

Rimarrebbe naturalmente integro il modello che accompagna il contratto collettivo nazionale con la contrattazione integrativa aziendale. Del resto la legislazione italiana prevede già norme di derogabilità su molte materie dal contratto nazionale, come quella introdotta dall’art. 8 del dl 138/2011 a sostegno della contrattazione di prossimità territoriale o aziendale con efficacia erga omnes.

In questa logica, si potrebbe persino affermare che sarebbe auspicabile che il contratto collettivo nazionale svolgesse una funzione di garanzia minima, applicabile in caso di mancanza di un contratto sottoscritto a un livello più vicino al luogo di lavoro. Senza radicalizzare il ragionamento basterebbe guardare a una realtà economica nella quale l’Italia è fortemente integrata come quella tedesca, in cui convivono contratti collettivi nazionali di settore e contratti collettivi aziendali e la decisione di uscire dall’alveo del contratto collettivo nazionale per dar vita ad un contratto collettivo d’impresa è assunta congiuntamente dalla proprietà e dai lavoratori rappresentati dal sindacato.

I guai prodotti dall’errata formulazione del quarto comma dell’art. 39 derivano da una rappresentazione non solo statica della realtà d’impresa ma dall’utilizzo implicito delle norme corporative ingessate del vecchio regime, le “categorie” che rispondevano a un’esigenza di stretto controllo politico dell’azione sindacale. Il concetto di categoria, che delimiterebbe il perimetro di applicazione di un contratto collettivo, ha un senso se le categorie sono predeterminate. Se si accoglie il principio di prossimità, funzionale a un’economia dinamica, il ragionamento va rovesciato (è la volontà delle parti a determinare l’ambito di applicazione delle intese) affermando le regole di un pluralismo contrattuale fondato sulla legittimazione piena dei contraenti.

L’esigenza di avvicinamento del contratto al luogo di lavoro e alle sue caratteristiche particolari non è riconducibile solo ad alcune categorie particolari come quella dei piloti, ma va esteso alle singole imprese e ai lavoratori che decidono liberamente di muoversi in questa direzione, com’è avvenuto nella vicenda Fca. Il moltiplicarsi dei contratti collettivi aziendali non può essere interpretato aprioristicamente né come “anarchia contrattuale” né come “politica dei cento fiori”, ma è legittimata solo dall’autorevolezza e dalla rappresentatività dei protagonisti nella misura in cui creano e distribuiscono valore. Del resto, un modello contrattuale pluralista non potrà che favorire le organizzazioni sindacali, rafforzandone la presenza sui luoghi di lavoro, accrescendo ruolo e competenza dei delegati e migliorando le condizioni dei lavoratori.

Senza trascurare il fatto che a beneficiarne sarebbe lo stesso processo di unità sindacale, non in termini “organici” come si diceva un tempo e che oggi per varie ragioni pratiche sarebbe impossibile, ma dando vita a una più forte ed estesa contrattazione sulla base di una efficace e condivisa “unità delle regole”.

Ciò detto, va senz’altro apprezzato il recente intervento di Lucia Valente, già assessore al lavoro della regione Lazio, che ben individua il collo di bottiglia del quarto comma dell’art. 39 e indica la soluzione in una modifica dello stesso e nell’approvazione di una legge ordinaria che consenta un pluralismo contrattuale sottoposto ai principi di libertà e di rappresentatività dei soggetti contraenti. D’altra parte, l’altro scoglio su cui sono affondati i tentativi di applicare l’art. 39, la registrazione degli statuti dei sindacati che ne sanciscano un ordinamento interno a base democratica (cosa che non dovrebbe spaventare nessuno) potrebbe essere attribuita al Cnel con la stessa legge ordinaria.

Certo, il paese vive una drammatica situazione di emergenza, ma, se le circostanze politiche rendessero possibile attuare una norma attesa da oltre settantenni, sarebbe un forte segnale di vitalità delle istituzioni.

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