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Se Macron vince le elezioni francesi, le Borse volano

ImagoEconomica

Non sappiamo quanti se ne siano accorti, ma il 20 marzo è la Giornata Internazionale della Felicità. Si celebra ogni anno dal 2012 sotto il patrocinio delle Nazioni Unite. L’hanno istituita 193 paesi con le risoluzioni 65/309 e 66/281 ed è dotata di un sito (happinessday.org), di un logo, di un Board of Directors e di un Board of Trustees. Offre possibilità di carriera, come dice il sito, e in questo momento è alla ricerca di stagisti da formare come esperti di social media e come copywriter.

Oltre alla felicità burocratica esistono la felicità filosofica, quella economica, quella medica, quella biologica e quella sociologica. Di quella dei mercati parleremo dopo. Nella storia della riflessione su questo tema si inizia volando alto. La filosofia greca tradisce la sua origine socioculturale aristocratica e predica la felicità come autocontrollo, realizzazione di sé (Aristotele), perseguimento della virtù (Platone) e distacco dai piaceri materiali per essere liberi di porsi obiettivi più elevati. È chiaramente una filosofia per le élites, mentre le masse cercano la felicità nei riti magici e dionisiaci e trovano comprensione nel solo Aristippo di Cirene, che non si studia al liceo e che teorizza il godersi il presente in qualunque modo perché il presente, a ben vedere, è la nostra unica realtà.

Il Medio Evo vola ancora più alto. La felicità terrena diventa un obiettivo secondario (Tommaso rivaluta addirittura la tristezza, che ci rende più vigili, creativi e motivati), mentre la beatitudine autentica si raggiunge misticamente nell’itinerarium mentis in Deum di Bonaventura e nella visione di Dio che Dante ci descrive nell’ultimo canto del Paradiso.

Poi c’è il crollo. Cominciano i moderni, da Montaigne in avanti, con una deregulation della questione. Per essere felice ognuno si organizzi come può. La felicità diventa soggettiva e la Dichiarazione d’Indipendenza scritta da Jefferson nel 1776 garantisce a tutti il diritto di perseguirla, ciascuno come meglio crede. Si torna a una visione elitaria con Robespierre e Lenin (le avanguardie donano la felicità alle masse anche contro la loro volontà) ma dopo i fallimenti del Novecento si prende a volare più basso che si può.

Le teorie si frantumano, con il New Age tornano in auge visioni gnostiche, la purificazione come anticamera dell’illuminazione e della beatitudine diventa (con tutto il rispetto) yoga e beauty farm, mentre non uno, ma ben cinque studi condotti indipendentemente gli uni dagli altri in Corea, Iran, Cile, America e Inghilterra dimostrano la forte correlazione tra felicità e consumo di frutta e verdura.

A tornare a una visione oggettiva e addirittura misurabile della felicità ci pensano gli economisti, che in questi anni, con la loro consueta grazia e leggerezza, hanno prodotto a ritmo crescente una serie di indicatori come la Felicità Nazionale Lorda (una metrica adottata ufficialmente in Bhutan), il Benessere Nazionale Lordo, l’Indice dello Sviluppo Umano, il Green and Happiness Index (adottato dalla Thailandia), il Better Life Index dell’Ocse e tantissimi altri.

Tra gli indicatori di felicità più considerati ci sono di solito la durata della vita (da cui si deduce che più si è vecchi più si è contenti), la durata degli studi (quelli che resero allegro Leopardi) e le disparità di reddito (quelle che in Europa si pensa che abbiano fatto vincere Trump anche se Trump non ne ha mai parlato una volta in vita sua). In Bhutan si misura anche la felicità spirituale e con questo accorgimento le Nazioni Unite lo hanno classificato nel 2016 come il paese più felice del mondo.

Sociologi, genetisti, psicologi ed economisti del comportamento notano però che la correlazione tra ricchezza, reddito e felicità è dubbia e forse non esiste proprio. Se si chiede alle persone come si sentono nella vita i ricchi si proclamano più soddisfatti dei poveri, ma se si prova a domandare come si sentono in quel momento preciso, che sia mattino pomeriggio o sera, non si trova mai nessuna differenza.

L’umore, dicono i medici, è funzione dell’omeostasi (stiamo bene se abbiamo dormito abbastanza e se non abbiamo fame o sete o prurito). I genetisti del National Institute of Health notano che non solo il benessere strutturale ma anche quello percepito hanno base genetica e indagano allo scopo il gene trasportatore della serotonina, il 5 -HTTLPR. Il padre dell’economia comportamentale David Kahneman afferma dal canto suo che la crescita della felicità si arresta sui 75mila dollari di reddito e che sopra è quasi inutile darsi da fare (dello stesso avviso il keynesiano Skidelsky nel suo recente How Much Is Enough, di avviso diverso Bezos, Buffett, Gates, Page e Brin, che hanno però obiettivi più ambiziosi del solo denaro).

La felicità borsistica è un’occorrenza rara e ci sembra di averla vista, dopo molto tempo, tra novembre e oggi. La felicità borsistica non va confusa con il rialzo azionario. Per tre quarti del tempo, infatti, il rialzo scala, come si suol dire, un muro di preoccupazione. Chi è dentro ci guadagna, naturalmente, ma a prezzo di notti agitate e paure di ogni tipo (il double-dip nel 2009-2010, l’Europa nel 2011-2012, il fiscal cliff e il taper tantrum nel 2013, il rialzo dei tassi e poi la Cina tra il 2014 e il 2016).

Chi gestisce soldi si trova in queste fasi ad avere a che fare con clienti nervosi e preoccupati anche se i risultati sono buoni ed è nervoso lui stesso. Dopo tre, cinque, sette anni di nervosismo i rialzi prendono strade diverse. A volte sono interrotti da crash drammatici, come nel 1987. Altre volte cominciano ad appassire nel malumore, come nel 2007. Altre volte ancora subiscono una mutazione genetica e da timidi ed esitanti diventano aggressivi, violenti e incontrollabili, come nel 1999 per le borse e il 2007 per le case.

In queste fasi i mercati sono come posseduti (entusiasmo, etimologicamente, significa essere posseduti dal divino) e non sono felici, ma, direbbero gli psichiatri, maniacali. Chi è dentro diventa avido, perde ogni freno inibitorio e invece di rallegrarsi pensando ai soldi che sta facendo si macera calcolando quanti di più potrebbe farne se andasse a leva. Chi è fuori è roso dall’invidia, dal sospetto di essere infinitamente stupido e dalla paura di perdere l’occasione della vita. Tutti sono eccitati, nessuno è contento. Nulla di tutto questo è stato visibile nel grande rialzo seguito alle elezioni americane di novembre. Nessuno ha sofferto, nemmeno gli short che, agili e attenti come sempre, hanno presto capito che il vento non soffiava dalla loro parte e si sono rovesciati o hanno comunque chiuso. Gli altri, il grosso, hanno comprato con moderazione e si sono limitati a non vendere. Il risultato è che chi sta guadagnando non si lamenta del fatto che avrebbe potuto guadagnare di più prendendo più rischi.

Chi è restato fuori, dal canto suo, non si rammarica troppo. Dopo tutto l’economia globale sta andando bene anche per lui, l’occupazione cresce, nessun bond fa default e chi guadagna in borsa ha il buon gusto di non ostentarglielo. Alla base di questa sensazione di benessere c’è un ragionamento piuttosto semplice. Veniamo da anni di ansia in cui la politica ha chiesto tasse, regole, austerità e multe. Ora tutto questo sembra alle spalle.

Se si realizzeranno davvero le riforme promesse non lo sappiamo, ma anche se non dovesse realizzarsi nulla abbiamo la ragionevole certezza di non dovere temere niente di negativo. Se poi qualcosa di buono si realizzerà, tanto meglio. Questa sensazione di leggerezza, avendo prodotto un importante rialzo, si accompagna ora a una sensazione di appagamento. Si prende qua e là qualche profitto, ma senza affanno.

I grandi annunci di riforme sono finiti e sono ormai nei prezzi, ma non è ancora nei prezzi la loro realizzazione. L’iter delle riforme americane sarà laborioso, mentre il ciclo elettorale europeo deve ancora iniziare, ma è difficile pensare che dal Congresso non uscirà proprio nulla così come oggi è più difficile di ieri pensare che dalle elezioni francesi uscirà la dissoluzione dell’euro. Certo, la Fed alzerà i tassi una volta ogni tre mesi per tutto quest’anno, ma l’anno prossimo la Fed sarà politicamente allineata con esecutivo e legislativo e alzerà solo se ce ne sarà bisogno.

Naturalmente molte cose possono ancora andare storte. I contrasti tra i repubblicani su sanità e riforma fiscale possono rivelarsi insanabili. Trump può commettere qualche grave errore o non commetterne nessuno ma rivelarsi inefficace. La Corea del Nord si sta divertendo molto a provocare il mondo mentre il mondo non ha nessuna idea su come affrontarla. Il terrorismo potrebbe spostare i risultati elettorali in Europa. Più le sorprese vere, quelle che non siamo nemmeno in grado di immaginare. Pur con queste avvertenze, un’esposizione ragionevole alle borse (dove ragionevole significa commisurata a un ciclo economico maturo, anche se non senile) ci sembra ancora una scelta corretta. Anche il dollaro continua ad offrire qualcosa di interessante.

Così com’è è in equilibrio, ma fornisce una polizza gratuita rispetto alle elezioni francesi e alle stravaganze coreane, mentre incorpora una call altrettanto gratuita in caso di riforma fiscale americana inclusiva di border adjustment. Certo, se Macron vincerà le elezioni l’euro si potrà rafforzare, ma quello che si perderà eventualmente sul dollaro sarà meno di quello che si potrà guadagnare sulle borse europee.

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