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Salvatore Salvo: la pizza, un mistero napoletano senza fine

“La storia della mia famiglia è la storia di tre generazioni di pizzaioli. La nostra storia nasce fuori dal basso (il “Vascio” piccola abitazione di uno o due vani, posta al piano terra, con l’accesso diretto sulla strada, dove ha abitato per secoli il popolo dei vicoli, quello dei meno abbienti, ndr) dove è nato mio padre, e dove la domenica mia nonna vendeva in strada le pizze “oggi a uotto” quelle che si mangiavano subito – erano tempi duri – e si pagavano dopo otto giorni, il tempo di racimolare qualche soldo.  Mio padre Giuseppe lasciò la strada e aprì la prima pizzeria a Portici. Qui io e mio fratello Francesco siamo cresciuti e ci siamo formati e quando è toccato a noi portare avanti l’azienda, decidemmo di trasferirci a Largo Arso a San Giorgio a Cremano.  Fu una scelta rischiosa scommettemmo su una piazza poco nota al pubblico che all’ epoca era al di fuori del circuito gastronomico tradizionale. Ma la nostra audacia o incoscienza fu premiata. Le cose cominciarono ad andarono bene, si sparse la voce della qualità della nostra pizza, la gente veniva non solo da Napoli, ma anche da tutta la Campania.  All’inizio era un locale di 70 metri quadrati poi tre anni fa ci siamo ampliati a 400 metri quadrati con oltre duecento posti a sedere e 30 dipendenti. Infine l’altr’anno siamo sbarcati a Napoli sulla Riviera di Chiaia, uno dei quartieri storici più eleganti e amati della città a due passi dalla splendida cornice del Lungomare Caracciolo dove abbiamo aperto un locale di 350 metri quadri, fronte mare, con 210 coperti”.

Eccola qui descritta in tutta semplicità l’avventura dei fratelli Salvo, un nome che oggi è una certezza del panorama nazionale della pizza di eccellenza. Siamo a livello dei grandi maestri artigiani pizzaioli d’Italia, un ristretto numero che annovera nell’albo d’oro personaggi del calibro di Franco Pepe, Enzo Coccia, Romualdo Rizzuti, Gennaro Battiloro, Ciro Salvo (che non è un omonimo ma un fratello che ha preso una strada autonoma in società con altre persone e raggiunto il successo, buon sangue non mente), Gino Sorbillo, Antonio Starita. 

E nella loro semplicità bisogna cavargli con le pinze come si è affermata in Italia e all’estero  la loro pizzeria. Perché i fratelli Salvo sono stati i primi a portare la pizza in un ristorante tre stelle Michelin, nientepopodimenoché  il prestigioso e raffinato “Da Vittorio” a Brusaporto  dei fratelli Cerea.  E sempre i Salvo hanno portato la pizza a Parigi al Louvre, sì, nel Caroussel che fa parte del complesso del grande museo francese. E  sempre loro sono stati invitati per il Columbus Day a New York a sfornare pizze per la festa degli italoamericani  ricevendo i complimenti del  sindaco di N.Y. De Blasio  che ha mangiato ed apprezzato.

Ma da dove si parte per arrivare a tanto?  “Quello che ci accomuna un po’ nelle nostre famiglie – risponde Salvatore – è di non avere una data in cui si è iniziato a lavorare. Se io vado a lavorare per esempio in stabilimento come la Fiat posso dire che sono stato assunto il 1 gennaio del 2000. Noi non abbiamo date da citare, siamo nati con le mani in pasta. Non dico che nostra madre ci ha partorito su un sacco di farina ma certamente fino a pochi minuti prima di metterci al mondo il suo posto era li, viveva la pizza, respirava la pizza e noi con lei …”.

La pizzeria Salvo a Riviera di Chiaia

Della pizza, che esce dai loro forni, la Guida delle Pizzeria d’Italia del Gambero Rosso cher assegnas loro il quinto punteggio nazionale parimerito con Sorbillo, Ciro Salvo e Battiloro, ne parla in questi termini: “Quella di Francesco e Salvatore non è solo una verace Tonda dal diametro generoso, ma piuttosto il frutto di una attenzione maniacale all’impasto unico e riconoscibile, saporito, leggero e profumato, garante di digeribilità e scioglievolezza, arricchito da materie prime selezionate con trasparenza tra piccoli produttori”. Espressioni che fino a qualche tempo fa avremmo letto con riferimento a un ristorante gourmet o stellato non certo a una pizzeria. E non sembra certo una semplice pizzeria quella che i Salvo hanno a San Giorgio a Cremano, lampadari di vetro soffiato, sedie e poltrone imbottite, tovaglioli di lino e canapa, arredi di design, librerie di Vini delle più pregiate cantine d’Italia, spumanti e perfino Champagne di marca, perché qui la pizza è una cosa seria e si accompagna a vini da enoteca, un servizio di accoglienza di alto livello. Siamo o no nel tempio di un patrimonio Unesco?

E la dice tutta che l’organizzazione  internazionale abbia premiato non la pizza in sé, ma l’arte dei pizzaioli napoletani, perché signori, era ora che si capisse che la pizza napoletana non è uno spuntino rapido, non è solo un piacevole cibo per stomaci in cerca di qualcosa di alternativo da consumare a qualsiasi ora del giorno e della notte, ma è un capitolo di storia, di cultura, di tradizione e di gusto di Napoli soprattutto ma di tutto il nostro Paese.

“Spesso ci sentiamo chiedere – confessa Salvatore, 1,95 d’altezza, fisico da rugbista come il fratello Francesco, che sfiora i 2 metri, sempre un sorriso coinvolgente sulle labbra che riflette il suo carattere solare – qual è il nostro segreto. Con un sorriso rispondiamo che alla base dell’esperienza che ci tramandiamo da generazioni c’è una cultura tecnica approfondita, unita all’entusiasmo per il nostro lavoro. E tutt’altro che semplice intuito, ma lo stimolo a migliorare e ad imparare dalla cultura culinaria partenopea”. E aggiunge: ” Iniziando a lavorare giovanissimi, con nostro padre Giuseppe, abbiamo respirato il valore dei sacrifici fatti per passione. E siamo gelosi e orgogliosi di una tradizione familiare consolidata e la portiamo avanti con passione e meticolosità”.

Che dire di più? C’è tutta la storia della cultura napoletana della pizza in queste parole, una storia che data la sua nascita indietro nei secoli, nel buio dei vicoli della Napoli dei quartieri, dove il sole non arriva mai, come cibo di poveri, che assurge poi con l’Unità d’Italia e la nascita della pizza Margherita in onore della neo-Regina d’Italia in visita con il marito a Napoli, agli allori di un cibo non più di strada ma che si consuma per divertimento, per socializzazione, come scelta alternativa ai ristoranti, seduti nelle pizzerie. E che da 20 anni a questa parte è diventata un culto mondiale al punto che un presidente degli Stati Uniti in visita in Italia, Clinton, chiede di poterla assaggiare nei quartieri spagnoli e che fa dichiarare a un’attrice del calibro di Julia Roberts “Ho una storia d’amore con la pizza. Diciamo che è una specie di pane, amore e carboidrati”.

Perché plebea, popolare, di moda che sia, la pizza è l’espressione di un popolo, quello napoletano, che sopravvive a centomila dominazioni, che coniuga miserie e nobiltà, che metabolizza venerazioni mistiche e criminalità organizzata, l’opulenza del barocco e l’ironia del popolino. Una miscela indefinibile e non inquadrabile, ma sempre sostenuta dalla passione per la propria terra (e mettiamoci pure il mare) e i suoi frutti.

E come Napoli anche la pizza sfugge a qualsiasi definizione. Parliamo di un prodotto semplice, fatto di elementi semplici come farina, olio, pomodoro e mozzarella eppure di veramente semplice non ha nulla. Ce lo spiega bene Salvatore quando dice: “Cerchiamo ogni giorno di perfezionarla grazie all’esperienza che maturiamo ed alla passione per la sperimentazione e la ricerca. La semplicità è la nostra chiave di lettura, ciò che ci anima e ci spinge ogni giorno a fare sempre meglio il nostro lavoro”.

Fatto sta che la pizza parla oggi un linguaggio universale, in occidente come in oriente. E’ stato calcolato che se ne sfornano miliardi al giorno. La pizza la capiscono tutti, la capisce il piccolo, il vecchio, chi la sa mangiare e chi non sa mangiare, chi è napoletano e chi no.  E’ un po’ come il calcio dove tutti sono commissari tecnici, tutti sono allenatori, direttori sportivi, e quindi tutti discutono di pizza.

E perché sia chiaro di cosa parliamo val la pena di ricordare che è stato calcolato che ogni giorno in Italia si sfornano quasi 7 milioni di pezzi, che in media mangiamo 7,6 chili di pizza all’anno, circa 38 pizze napoletane a testa, niente rispetto agli Stati Uniti, che ne divorano 13 chili a testa

Ma come si può definire allora la pizza? “E’ un concetto, una idea – risponde Salvatore -è tradizione, passione, misticismo in alcuni casi. Perché se parliamo con i vecchi pizzaioli, quelli che vivono di empirismo che fanno così perché l’hanno visto fare, l’hanno sempre fatto, allora ci accorgiamo che per loro è quasi ripercorrere un rito alchemico. Forse noi questo mito dell’alchimia del pizzaiolo napoletano lo stiamo un po’ evolvendo, però per quanta conoscenza possiamo acquisire, per gli elementi culturali che abbiamo a disposizione, probabilmente ci sono tante cose che facciamo quasi in maniera inconsapevole e questo è il bello della pizza napoletana. Mi piace sempre dire che il mestiere del pizzaiolo non lo si insegna lo si assimila. Io non mi ricordo di aver visto mio padre dire a me: questa cosa si fa cosi!  Mi diceva: vedi come si fa. Che è ben diverso, perche dovevo apprenderla vedendo, perché mi doveva tornare naturale ripetere quel gesto quelle esecuzioni quasi rituali del processo di lavorazione”.

Non provate a questo punto a chiedere dove sia il segreto della pizza. Perché la risposta sarà netta: ”Il segreto non c’è.  Il segreto è tecnica, è conoscenza, è un sistema di lavoro che deve arrivare a stimolare certi processi che avvengono durante la lavorazione della pizza: lievitazione contestuale a quello della fermentazione e maturazione che porta cuocere in una maniera del tutto anomala rispetto alla panificazione. Infatti, la pizza napoletana è considerata da alcuni osservatori un atto di panificazione imperfetto. In una pizza napoletana non devi trovare nessuna di quelle caratteristiche che deve avere una panificazione perfetta.  croccantezza, panatura marcata, doratura della crosta, profumo dell’acidità del pane, del lievito madre molto spinto). Tutto questo non appartiene alla pizza napoletana.  Alla pizza napoletana appartengono sofficità, scioglievolezza, un’alveolatura blanda (la struttura del glutine che si amplia con la lievitazione, che le conferisce un tono di acidità) che la fa aprire a portafoglio, il cornicione che deve essere irregolare e ed elastico, che non deve avere croccantezza (che diventa un difetto). Perché se prendo una fetta di pizza si deve piegare, non deve sopportare il peso neanche del pomodoro. E poi pensiamo che la pizza ha una cottura violenta, una cottura esasperata. Chi non la conosce può arrivare a pensare che è cruda, ma la Pizza napoletana è così perché il segreto è anche nella tradizione che porta in sé. Una tradizione che è diversa da famiglia a famiglia. E’ un po’ come un orto: quello che faccio io è diverso da quello del mio vicino perché magari scelgo un determinato orario per annaffiare il campo o uso un particolare concime o perché in passato nella terra ho messo un po’ di letame in più”.

Non c’è scampo, più si parla con Salvatore più ci si rende conto che dietro quel cerchio magico che risponde al nome di Pizza napoletana c’è un mondo misterioso, contraddittorio e indefinibile come la città che l’ha prodotto.

Tanta ricerca vien da chiedersi a cosa deve portare? Per Salvatore Salvo “Un traguardo fondamentale, che è ancora lontano, è che quando si parli di pizza si parli di qualità. Oggi ci stiamo ispirando a come si lavora in certi bistrot, in certi ristoranti stellati, noi crediamo che quel tipo di lavoro fatto si può trasmettere anche alle pizzerie, evolvendo anche il concetto di bottega. A Napoli c’è una concezione che a me non piace più, del servizio molto spartano lasciato al ragazzino di turno o alla signora con il grembiulino di casa, servito a casa perché quello che conta è la pizza buona. Ma la pizzeria è un luogo in cui la famiglia passa sempre più tempo, si ritrovano. E con le mutate condizioni economiche la famiglia chiede anche un ambiente e servizio più curato. E ovviamente un prodotto di qualità che sia all’altezza. Fra Napoli e provincia ci saranno almeno 10.000 pizzerie, ma quelle in cui si può parlare di prodotto di eccellenza e qualità sono ancora poche. E il mio rammarico è che sono sempre le stesse nonostante i percorsi che noi e i nostri colleghi più affermati abbiamo compiuto in questi anni. Mi dispiace dirlo ma rimaniamo a volte scimmiottati piuttosto che seguiti.  Non siamo precursori o profeti ma è certo che dobbiamo arrivare a scomporre l’equazione: pizza uguale economicità o massificazione del prodotto”.

In effetti, a ben pensarci negli ultimi 15 anni la pizza ha conosciuto un processo di massificazione simile a quello delle hamburgherie con i brand famosi, ma i livelli spesso rimangono per così dire approssimativi. “E’ proprio questo il punto – si infervora Salvatore – dobbiamo assolutamente recuperare il concetto di qualità, di quel pizzaiolo che prendeva i pomodori dal contadino o come faceva mio padre che andava a ottobre a comprare i pomodori a Ercolano perché solo quello era il pomodoro che lui poteva mettere nelle sue pizze.Oppure quando si andava a prendere la mozzarella direttamente al caseificio che te la faceva davanti a te”.  E’ quel salto di qualità che ha permesso alla ristorazione italiana di collocarsi subito dopo la Francia fra le cucine di eccellenza internazionali. Studio, scelta delle materie prime, tecniche di cottura, Scelte che hanno pagato come dimostra il numero di stelle Michelin che oggi piovo ogni anno sui ristoranti italiani. “La stessa cosa – ora che è un patrimonio dell’umanità – dovrebbe accadere  per le pizzerie. Quei locali che per mantenere bassi i prezzi, hanno tradito le sue caratteristiche qualitative ricorrendo a rifornimenti industriali, hanno arrecato un grave danno all’immagine di uno dei fiori all’occhiello del Made in Italy nel mondo.  E’ giunto il momento di ripensare il concetto di pizza come un concetto di qualità assoluta”.

Meditando sulle parole di Salvatore vien da pensare che in realtà quando mangiamo una pizza napoletana è come se rinnovassimo un rito misterico nella magia di una città dai mille volti, dalle mille storie, dai mille perché. E il segreto è forse nelle sue mille anime, che riportano sempre ai sapori e ai profumi di questa terra baciata dal sole che ha attraversato i secoli rimanendo sempre fedele a se stessa.

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