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Salvare vite dal Covid senza uccidere l’economia: chi vince e chi perde

FIRSTonline

La corsa per la vita o, se preferite, la guerra contro il Covid-19, è arrivata alla seconda tappa o battaglia. Non sappiamo quante altre ce ne saranno. L’augurio è che sia l’ultima. Ma appare come una speranza non ben piantata nella realtà. Visto che per iniziare davvero a tornare a una vita “normale” occorre essere vaccinati, con tutto ciò che questo implica in termini di tempi e di verifica sul campo e su ampia scala dell’efficacia (sebbene su quest’ultima fare i cacadubbi non aiuta niente e nessuno).

Comunque, ha senso iniziare a tirare una riga e stilare un primo bilancio, necessariamente provvisorio. Ben consci che quello finale lo scriveremo, se ne avremo la fortuna, tra qualche anno.

Le voci di questo bilancio sono due: le vite umane perse e i danni all’economia in conseguenza delle restrizioni alle aggregazioni sociali (ce ne sono altri, di danni, anche più rilevanti, sul piano psicologico anzitutto).

Riguardo alle vite umane, consideriamo solo i decessi ufficialmente attribuiti al Covid-19. Mettendo da parte sia la questione della co-morbilità (ossia, essere già malati o comunque affetti da qualche carenza di salute), che è stata troppo spesso brandita dai negazionisti, per ignoranza, superficialità o interesse di bottega. Sia la questione delle morti riconducibili al virus ma non attribuibili ad esso, perché ai morti non si fanno i tamponi (il cosiddetto eccesso di morti).

Riguardo al PIL, non conta tanto la variazione del 2020, ma la differenza tra questa e quanto l’economia potenzialmente sarebbe cresciuta. Essendo la crescita potenziale una variabile quasi metafisica, come approssimazione abbiamo preso l’andamento annuo nel periodo 2002-11.

Ovviamente, nel determinare le differenze nelle perdite umane e in quelle economiche concorrono molte variabili strutturali. Per le prime, per esempio: anzianità, speranza di vita, condizioni abitative, densità demografica, consuetudini sociali. Per le seconde: incidenza delle attività più penalizzate (come il turismo), politiche economiche adottate, importanza del mercato interno rispetto al peso dell’export. Ma, in prima approssimazione, le due statistiche appaiono sufficientemente indicative.

E non si parlano per nulla! Invece, dovrebbero parlarsi, eccome. Secondo chi cerca un modo di ridurre i costi economici della lotta alla pandemia, senza sacrificare vite (il non detto, per chi fa questo tipo di conti “assicurativi”, è che qualche morto in più è accettabile), esiste un trade-off tra minori morti e minor PIL. Ossia, per salvare persone, perdo più PIL. E viceversa. Un’ardua e dolorosissima scelta politica. Come quella imposta da Re Salomone alle due madri, la vera e la finta.

Classificando le 53 nazioni, scelte qui per rappresentatività, emerge che al primo posto per minori perdite umane c’è Taiwan, seguita da Vietnam, Tailandia, Cina, Nuova Zelanda, Singapore, Sud Corea, Giappone, Uruguay, Venezuela e Australia. In fondo ci sono Regno Unito, Italia, Spagna, Perù e Belgio. Se la Lombardia fosse una nazione («Lo è!», ci sembra si udire la voce rauca del Senatür Umberto Bossi), sarebbe n.c., perché troppo staccata dalle altre, con ben 2.102 morti per milione, quasi doppiando il Belgio, che è la peggiore al mondo (1.397).

Mettendo in fila le stesse nazioni per la minor perdita di PIL dovuta alla pandemia al primo posto troviamo l’Egitto, che era ben 14° nelle morti, seguito da Cina, Norvegia, Taiwan, Vietnam, Danimarca, Irlanda, Venezuela, Finlandia e Giappone.  In fondo India, Palestina, Maldive, Perù e Iraq. L’Italia migliora, salendo al 36° posto, ma dovrebbe stare nelle prime cinque posizioni, per pareggiare il conto dei morti. La Lombardia sarebbe 47esima; la famosa locomotiva arranca: secondo le stime di REF ricerche perde quest’anno un punto di PIL in più della media italiana, mentre dovrebbe svettare ben sopra gli altri paesi, di nuovo per compensare le vite umane perdute.

Perché le due graduatorie si parlano così poco? Semplice: perché il martello del lockdown è un estremo rimedio a un estremo male. Se lo si usa, vuol dire che non si è stati capaci di seguire il virus e confinarlo, e si è costretti a chiudere tutto perché non si sa nemmeno dove è, ossia quante persone sono davvero infette. Se invece si ha la capacità di testare e tracciare e isolare le persone infette (Taiwan, Sud Corea, Cina, Giappone, dove già si usavano mascherine e guanti, a prescindere, come avrebbe detto Totò) e/o il coraggio politico di fare il lockdown appena si manifestano pochi casi (Nuova Zelanda), allora si limitano i morti e/o i danni all’economia.

La riprova sta nel rapporto tra morti e casi ufficiali (Case Mortality Rate, CMR). Se questo è molto basso, vuol dire che si ha una buona capacità di testare e tracciare e di limitare i casi. L’opposto se è alto. Un alto CMR può anche vuol dire che le fasce più fragili della popolazione (gli anziani, come i malati cronici) non sono stati adeguatamente protette (per esempio, facendo entrare il virus nelle RSA).

Come atteso, ai primi posti per CMR troviamo i paesi che hanno fatto meglio in termini di salvezza di vite umane e di tutela dell’economia. L’Italia, invece, sta in fondo. E la Lombardia fa peggio dell’Italia. Eccezione, in questo caso, è la Cina. Ciò è spiegabile: avendo affrontato per prima il virus, è stata colta di sorpresa e quindi ha dovuto chiudere l’economia. Poi ha affinato i metodi di test e tracciamento. E infatti il suo CMR da maggio in poi è 1,31% e negli ultimi mesi è pari a zero.

Le conclusioni balzano alla mente. Ma una, per chi è più duro di comprendonio (e più attaccato alla cadrega, come direbbero Aldo, Giovanni e Giacomo, nel mirabile sketch sul Conte Dracula) è che il modello di sanità lombardo si è rivelato fallimentare. Se rifondarlo o riformarlo è una questione terminologica poco interessante.

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