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Pensioni d’oro tra equità e demagogia: da nuovi metodi di ricalcolo al contributo di solidarietà

Denunciando lo scandalo delle c.d. pensioni d’oro  qualcuno si è accaparrato delle fortune sul piano editoriale: saggi andati a ruba, con edizioni successive che si esaurivano in poche settimane soltanto perché vi erano sciorinati – a mo’ di liste di proscrizione –  i nomi di quei privilegiati che potevano usufruire, a livelli eccelsi, del sogno proibito dell’italiano medio: andare in pensione il prima possibile con un assegno che, al pari di un vendicatore dei torti  subiti da ciascuno durante la vita attiva, assicuri una serena vecchiaia, sempre più simile, grazie al prolungamento dell’attesa di vita, ad una  tardiva giovinezza.  

Certo, nel nostro sistema pensionistico  ci sono degli aspetti che gridano vendetta e che derivano da colpi di mano legislativi a favore degli , come nel caso di quei dirigenti telefonici che ottennero- grazie appunto ad una leggina –  la facoltà di optare per l’iscrizione al fondo della categoria e non all’Inpdai, dove vigeva il tetto contributivo e pensionabile (ovvero al di sopra di un determinato livello di retribuzione non operavano più né le ritenute né il computo a fini pensionistici). Questa mossa, insieme alla corresponsione di una retribuzione tanto elevata da apparire assurda, ha consentito ad un fortunato signore di godersi una pensione pari a 91mila euro lordi al mese. L’altra trovata tutta italiana (l’amore per la pensione è diffuso anche ai piani alti) è quella di aver previsto per chi occupa posizioni istituzionali non solo remunerazioni significative dell’attività svolta, ma anche un assegno vitalizio e addirittura una pensione a fine mandato.

Capita così che, al raggiungimento dell’età pensionabile, un civil servat accumuli la pensione derivante dalla professione svolta (spesso da professore universitario o da magistrato, ma anche da normale ex dipendente iscritto all’Inps), i trattamenti connessi ai mandati elettivi regionali e nazionali o del Parlamento europeo, i vitalizi riconosciuti ai membri delle Authority; per non parlare di quanti hanno la ventura di approdare alla Consulta o persino al Quirinale. Capita, poi, che tra costoro la gogna sia riservata soltanto a Giuliano Amato, omettendo che il beniamino del , Stefano Rodotà, ha avuto più o meno il medesimo cursus honorum (e quindi le stesse  vicende previdenziali) del Dottor Sottile. Capita, altresì, che non si tenga conto delle correzioni nel frattempo intervenute per queste irragionevoli situazioni di privilegio. Si tratta di correzioni, solitamente, altrettanto irragionevoli in direzione opposta, nel senso che sono state create talvolta situazioni di oggettiva difficoltà (anche tra i parlamentari, per esempio, mediante l’innalzamento dell’età pensionabile di dieci anni in un solo colpo si sono create casistiche riconducibili alla fattispecie dei  c.d. esodati). Ma tant’è; prendiamone atto: la cuccagna non poteva durare più a lungo.

Alla fine, però, sorge il dubbio che i  (o le come sono stati definiti i ‘’pensionati d’oro’’) svolgano la funzione del consueto specchio per allodole allo scopo di consentire al governo, insieme al brivido della popolarità a buon mercato, l’impresa di compiere un’operazione di raggio più ampio. Salvo modifiche nella lettura della Camera, il testo del disegno di legge di stabilità per il 2014, approvato dal Senato, ha reintrodotto, infatti, il contributo di solidarietà sulle c.d. pensioni d’oro (sfidando così una nuova sanzione da parte della Consulta).

Si parte da un tetto di 90.168 euro lordi l’anno (corrispondenti a 6.936 euro lordi al mese) e per la durata di un triennio. La scansione è la seguente: un primo taglio del 6% per la parte di pensione compresa tra 14 e 20 volte il minimo (da 90.168 a 128.811); un secondo del 12% per la parte eccedente 20 volte in minimo fino a 30 volte (da 128.811 a 193.216); un terzo del 18% sulle quote oltre 30 volte il minimo. Ma alla Camera vi sono gruppi di opposizione che si propongono di andare ancora più a fondo nell’azione di degli effetti  perversi del calcolo retributivo. Come si propongono di agire ? E’ venuta di moda l’idea di ricalcolare con il metodo contributivo i trattamenti – al di sopra di un determinato livello di importo – liquidati con il retributivo, gravando lo scostamento di un contributo di solidarietà definito addirittura con criteri di progressività (ovvero maggiore è la ‘’rendita di posizione’’ garantita dal calcolo retributivo più elevata è la penalizzazione). Purtroppo, anche nel nostro caso, toccherebbe in sorte agli apprendisti stregoni di non riuscire a controllare le forze che maldestramente evocano. Uno studio, infatti, di Fabrizio e Stefano Patriarca (un’anticipazione è stata pubblicata su lavoce.info) dimostra che (si veda il grafico) quanto più aumenta l’importo dell’assegno (oltre i 44mila ero l’anno)  più si riduce la parte dai versamenti contributivi – perché sul valore dell’assegno opera la modulazione al ribasso dei trattamenti (da 2% a 0,90%) – fino a ridursi al 5% per pensioni intorno ai 12mila euro lordi mensili, mentre il picco raggiunge il 30% dello scostamento, tra retributivo e contributivo, intorno ai 5mila euro lordi. Il che sta a significare che la proposta  di rimodulare, ulteriormente al ribasso, i rendimenti delle quote di retribuzione a cui si applica il retributivo, sarebbe assai efficace, oltre che equa, per affrontare la questione delle pensioni più elevate. 

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