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La difficile Italia Multinazionale

Promosso da ICE – Agenzia per la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane e realizzato da Politecnico di Milano e R&P, il rapporto “Italia Multinazionale 2012” (di cui a questo link si può trovare una interessante sintesi), presentato la settimana scorsa a Milano, fornisce un’analisi dell’internazionalizzazione delle imprese  attraverso gli investimenti diretti esteri in entrata ed in uscita dall’Italia, nell’ambito dei mutamenti degli scenari macroeconomici internazionali. 

Secondo i dati presentati dall’Osservatorio Nazionale per l’Internazionalizzazione e gli Scambi nel rapporto, nonostante il 2011 abbia registrato una forte crescita dei flussi di IDE in entrata ed in uscita rispetto all’anno precedente, il grado di internazionalizzazione dell’Italia continua a essere significativamente inferiore a quello dei maggiori partner europei.

L’anno scorso il rapporto percentuale tra lo stock degli IDE in uscita e il prodotto interno lordo è stato pari al 23,4%, meno della metà rispetto alla media europea (55,9%) e della UE-27 (52,4%). Nello stesso periodo, lo stock di investimenti produttivi in entrata sul PIL, pari per il nostro Paese al 15,2%, è stato significativamente inferiore a quello medio mondiale (28,7%), a quello dei 10 Paesi più sviluppati (31,5%), a quello europeo (43,2%) e dell’Unione Europea (41,4%).

Le principali ragioni vanno individuate nella bassa competitività ed attrazione internazionale del Paese, dunque in fattori strutturali che non permettono alcun assottigliarsi del gap tendenziale.

Le iniziative estere delle imprese italiane, comparativamente alla media mondiale, si focalizzano sempre più sul commercio al dettaglio, l’unico ambito funzionale nel quale il Paese abbia mostrato un alto indice di specializzazione negli ultimi dieci anni.

Dal punto di vista geografico, le uniche aree di destinazione per cui si hanno elevati indici di specializzazione per numero di progetti di investimento diretto, capitale investito e posti di lavoro creati sono l’Europa Centro-Orientale ed il Medio Oriente. Se verso la prima destinazione vengono orientate molte iniziative di delocalizzazione produttiva, in Medio Oriente sono indirizzati investimenti nei comparti di maggior prestigio del Made in Italy. Al di sotto della media, invece, l’orientamento verso alcuni Paesi asiatici, tra cui la Cina. Le eccezioni a questo quadro sono rappresentate dagli investimenti in attività commerciali in Giappone e USA. Tutto ciò sembra essere conseguenza della frammentarietà della strategia industriale e commerciale italiana, i cui tratti tipici sono rappresentati da processi di delocalizzazione verso le aree più vicine in senso geopolitico, culturale e logistico. Senza dimenticare la volontà di rafforzare la propria presenza commerciale soprattutto nei Paesi più avanzati, capaci di apprezzare qualità del design e innovatività del prodotto, caratterizzati da profili di domanda elastici al reddito. Il minore tasso di iniziative imprenditoriali ed il ridotto ammontare di investimenti produttivi, in particolare nelle attività manifatturiere, chiudono il confronto con le più efficienti economie mondiali, rimarcando l’assenza di un’efficace politica industriale e finanziaria.

Queste considerazioni portano a considerare la situazione sul fronte dell’attrazione di IDE, dove le prestazioni dell’Italia sono perfino peggiori, con le inevitabili pesanti ripercussioni su occupazione, domanda e sviluppo del mercato interno. Tra i settori dove l’Italia ha esercitato maggiore attrazione negli ultimi dieci anni figurano turismo, tempo libero e spettacolo, a conferma delle opportunità che il Bel Paese potrebbe offrire valorizzando il proprio patrimonio artistico, culturale ed ambientale. Tuttavia, questi due settori raccolgono solo il 4,8% della totalità delle iniziative, dato il loro carattere di nicchia su scala internazionale. Emergono, inoltre, il comparto energetico, grazie ai numerosi piccoli progetti in energie rinnovabili, e quello della cura della salute e dei servizi sociali, per effetto di alcuni investimenti in case di cura e per l’assistenza agli anziani. Male i servizi di software e ICT: ciò rappresenta un evidente punto di debolezza del nostro Paese, se si pensa che questi settori sono tra i più attivi su scala mondiale quanto a numerosità e consistenza dei progetti, soprattutto nei Paesi più avanzati.

Per quanto riguarda la composizione settoriale, si conferma, nonostante il ridotto tasso di investimenti a confronto con le economie più avanzate, la complessiva prevalenza del comparto manifatturiero. La quota dei dipendenti ammonta al 62,2% per le partecipazioni italiane all’estero, ma scende al 53,5% per le partecipazioni estere in Italia, a causa della mancanza di incentivi e strategie innovative di medio-lungo periodo.

Le imprese multinazionali, inoltre, si caratterizzano per una produttività del lavoro più che doppia rispetto alla media di quelle strettamente nazionali. I maggiori divari di produttività a favore delle imprese a partecipazione estera si riscontrano nei servizi di informatica e telecomunicazioni, nell’industria estrattiva e nei servizi professionali. Non a caso, le partecipazioni estere prevalgono nei servizi a più elevato contenuto innovativo che, per il settore manifatturiero, significano settori di larga scala e quelli ad alta tecnologia. Senza dimenticare che ora, per effetto della forte espansione di Enel, un alto grado di internazionalizzazione si è riscontrato anche nel settore delle utility.

Quando finalmente entrerà in funzione, il Desk Italia, che dovrà coordinare le iniziative di attrazione degli investimenti esteri in Italia, avrà il suo bel daffare.

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