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Conte e M5S come Bertinotti e Rc ai tempi di Prodi: prima lo strappo e poi un fragoroso flop

Imagoeconomica

Salvo un improvviso viaggio a Canossa entro mercoledì e un’improbabile autosconfessione dello strappo con il premier Mario Draghi, Giuseppe Conte e M5S sembrano avviati sulla strada non propriamente gloriosa dell’ex capo di Rifondazione comunista, Fausto Bertinotti. Come Conte ha messo in crisi, negandogli la fiducia al Senato sul Decreto Aiuti, il Governo Draghi, ossia il più autorevole Governo possibile in questa legislatura, così Bertinotti resterà per sempre nella storia parlamentare come il capo di un partito che nel ’98 fece cadere per un voto sulla Legge finanziaria il primo Governo Prodi, nato dal clamoroso successo elettorale dell’Ulivo del ’96 quando il Professore bolognese battè nelle urne il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi.

BERTINOTTI ANTESIGNANO DI CONTE QUANDO NEL 1998 FECE CADERE IL PRIMO GOVERNO PRODI SULLA FINANZIARIA

I rapporti tra Draghi e Conte, che non si è mai fatto una ragione dello sfratto da Palazzo Chigi ad opera di Matteo Renzi e della successiva chiamata dell’ex Presidente della Bce da parte del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, non sono mai stati idilliaci ma burrascosi furono anche sul finire degli anni ’90 quelli tra il premier Romano Prodi e Bertinotti. Nelle elezioni del ’96 che segnarono il trionfo di Prodi e dell’Ulivo, Rifondazione comunista (Rc) – che con l’Ulivo aveva siglato un patto di desistenza – raccolse un buon risultato incassando l’8,6% dei voti e portando in Parlamento una buona pattuglia di 35 unità. Ma, una volta formato il primo Governo Prodi, che Rc appoggiava dall’esterno, non tardarono a manifestarsi dissidi sulla politica economica e sociale e sulla politica estera. Nessuno avrebbe però immaginato che Bertinotti, malgrado la dissidenza interna capeggiata da Armando Cossutta, si sarebbe rivelato così improvvido da far cadere il Governo Prodi. Tuttavia così fu nella votazione parlamentare dell’ottobre del 1998 sulla Legge finanziaria. Quella di Bertinotti non fu un’idea geniale non solo per gli interessi generali del Paese ma, alla lunga, nemmeno per gli interessi di Rifondazione Comunista che, dopo aver subito la scissione di Cossutta, nelle elezioni parlamentari del 2006 scese al 5,8% dei voti alla Camera pur ottenendo un buon 7,4% al Senato, ma qualche anno dopo subì il tracollo fatale. Sembra di rivedere la scena di oggi con i Cinque Stelle al posto di Rifondazione, il ministro Luigi Di Maio che lascia i grillini e Conte che nega la fiducia al Governo Draghi. Come lo sgambetto al primo Governo Prodi lasciò uno stigma indelebile di inaffidabilità su Bertinotti, altrettanto sembra succedere a Conte dopo il suo rifiuto a rinnovare la fiducia al Governo Draghi.

IL FLOP DEFINITIVO DI BERTINOTTI ARRIVA NEL 2008 QUANDO RIFONDAZIONE COMUNISTA NON RAGGIUNGE IL QUORUM E RESTA FUORI DAL PARLAMENTO

Dopo il risultato elettorale del 2006, Bertinotti, con l’appoggio dell’Ulivo, riuscì a diventare Presidente della Camera dei Deputati. Un incarico prestigioso che però non risparmiò a Bertinotti e a Rifondazione Comunista dolori e sconfitte di lì a poco tempo. Pur essendo entrata per la prima volta nel Governo, il secondo Governo Prodi, Rc – sempre in balia delle spinte massimaliste – andò incontro a una sonora e definitiva sconfitta nelle elezioni politiche del 2008 non riuscendo a superare il quorum del 5% e restando fuori dal Parlamento. Insuccesso che costrinse Bertinotti a dimettersi da capo del partito e ad abbandonare la vita politica.

La storia, come diceva Marx, si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia e la seconda come farsa. Chissà se sarà così anche stavolta ma non è casuale che la sindrome Bertinotti, e cioè la paura della sconfitta e della scomparsa politica, serpeggi tra i Cinque Stelle, se è vero che, dopo aver subito l’addio di Di Maio, sembrano alla vigilia di nuove scissioni, che raccoglierebbero l’adesione di un’altra trentina di parlamentari intenzionati a mantenere il sostegno al Governo Draghi. Se questo accadrà, la pattuglia di Conte si ridurrà a un drappello del tutto marginale sul piano politico prima ancora che numerico. Ma a quel punto Conte potrà prendersela solo con se stesso e con quel team di leggendari “statisti” che da Marco Travaglio a Rocco Casalino e da Paola Taverna ad Alessandro Di Battista fanno a gara a consigliarlo su come velocizzare l’autodissoluzione dei Cinque Stelle.

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