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Bersani, l’Italia non merita un governicchio

Nei prossimi giorni Pierluigi Bersani verificherà se in Parlamento possa o meno trovare i numeri per mettere insieme una maggioranza certa con la quale presentarsi dal Capo dello Stato e ottenere il definitivo incarico a formare il governo.  Secondo gli ultimi calcoli sembra che manchino 15 voti pe raggiungere la maggioranza minima al Senato ma se la Lega otterrà il permesso da Silvio Berlusconi (incredibile a dirsi!) di far nascere il governo Bersani è possibile che per Pasqua la nave parta.  Naturalmente  la questione numerica è solo l’anticamera della soluzione del problema politico, ma non v’’è chi non veda come un governo appeso ai voti della Lega nasca endemicamente fragile e sia sottoposto a tutti i venti e a tutte le intemperie della politica. Alle porte sembra avvicinarsi una specie di governicchio. Esattamente il contrario di quanto il Fondo Monetario e la Banca d’Italia raccomandavano ancora ieri. Anziché affrontare il toro per le corna e fare ciò che in tutte le democrazie moderne succede quando l’elettorato non assegna una vittoria certa a uno dei contendenti e cioè promuovere un confronto aperto – se non un governo – tra le due maggiori forze politiche, Bersani si riduce così a chiedere gesuiticamente alla Lega di intercedere presso Berlusconi perché possa nascere il suo governo. Dopo aver inseguito vanamente Beppe Grillo e aver raccolto solo schiaffi e insulti, non è un buon viatico per il primo partito italiano. Ma il problema numerico è solo il primo aspetto della questione politica che sta davanti al segretario del Pd. Ammesso che riesca a far quadrare i conti, resta il problema della composizione e del programma del governo da formare.

Sulla composizione circolano alcune candidature eccellenti – come quella di Fabrizio Saccomanni al Tesoro e di Mario Monti agli Esteri – e alcuni nomi effervescenti o altisonanti che sollevano dubbi di merito e di metodo. Si sente parlare della Gabanelli, di Saviano, di don Ciotti, di Farinetti e via dicendo. Persone valorose che però nella vita fanno mestieri diversi e hanno requisiti diversi da quelli che si richiedono a un uomo di governo ma che lasciano senza risposta una domanda molto semplice: se si riteneva di proporli per un incarico ministeriale perché non candidarli alle elezioni che si sono tenute solo un mese fa e non anni fa? Possibile che tra gli eletti al nuovo Parlamento non ci sia personale politico adatto a formare un governo? Ci può essere un’eccezione alla regola (Saccomanni) ma perché preferire i tecnici e gli esterni a tutti i costi? E questo – lo ripetiamo – a solo un mese dalla celebrazione delle ultime elezioni.

Ma la questione più rilevante per il governo che verrà è naturalmente quella dei contenuti programmatici. E’ qui che arrivano i dolori. Negli otto punti che Bersani ha presentato alle forze politiche ci sono aspetti condivisibili e aspetti discutibili, ma c’è soprattutto un equivoco e due lacune grandi come una casa. Lacune e non dimenticanze: la prima si chiama competitività e la seconda meritocrazia.

Data la profondità della recessione non v’è chi non veda come la crescita debba essere la stella polare della politica economica, ma senza competitività di che crescita parliamo? Vogliamo illuderci che la crescita si faccia solo con la spesa pubblica senza avere nemmeno le risorse adeguate? Del resto anche nelle ultime ore Fondo Monetario e Banca d’Italia ci hanno indicato quale sia il sentiero di una sana e duratura crescita della nostra economia, che non può avvenire attraverso scorciatoie domestiche ma solo nel quadro di una nuova strategia europea dello sviluppo.

L’altra lacuna della piattaforma di Bersani si chiama meritocrazia che, seconda la vulgata della sinistra conformista e radicale, sembra una bestemmia anziché l’ascensore sociale per far avanzare i più meritevoli anche se privi di mezzi economici.  L’ottusità antimeritocratica della sinistra radicale e dei sindacati (con scarse differenze tra la Cgil e i Cobas) è particolarmente lampante nella scuola ma vale anche in tutta la pubblica amministrazione e più in generale nei diversi campi della vita pubblica.

Senza competitività e senza meritocrazia non si va lontano oppure si va nella direzione esattamente opposta a quella che meriterebbe un Paese moderno che vuol tornare a crescere per combattere ingiustizie sociali, disoccupazione e povertà. Ma sulla crescita pende un altro equivoco che serpeggia negli otto punti di Bersani e cioè che l’austerità sia sempre e comunque una bestemmia. Il caso di Cipro dimostra l’ottusità degli eurocrati ma l’austerità va respinta se è iniqua e se è slegata dallo sviluppo. Al contrario, una crescita senza risanamento sarebbe una crescita fallace perché l’Italia non parte da un prato verde ma dal terzo debito pubblico più alto del mondo.  Probabilmente sull’austerità Bersani fa l’indiano perché sa benissimo che in ogni caso dovremo vedercela con il Fiscal compact e perché l’eventuale ingresso al governo di personalità come Saccomanni e Monti varrebbe da solo a rassicurare i mercati finanziari e le istituzioni internazionali e anche a riportare realismo nella politica italiana. Ma un governo che si rispetti deve parlare sempre il linguaggio della verità. Sarà anche una ricetta amara ma l’Italia non ha più bisogno di illusioni e nemmeno di mezze bugie. Abbiamo già dato.

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