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Venezuela, Sapelli: “Il Papa è l’unico che può riavviare il dialogo”

Imagoeconomica

“E’ chiaro che l’Italia dovrebbe schierarsi contro Maduro e a favore di Guaidò, che però mi sembra una figura troppo debole per durare”. Giulio Sapelli, già docente di Storia economica alla Statale di Milano, è uno dei massimi conoscitori del mondo sudamericano: appena rientrato da un lungo viaggio durante il quale ha visitato Brasile, Argentina, Cile, Colombia, Perù e Messico, ha concesso un’intervista a FIRSTonline per commentare la situazione in Venezuela ma non solo: “In passato Washington adottava strategie più militari, ora punta sugli scandali della corruzione per distruggere i grandi partiti tradizionali del Sudamerica e riuscire a insediare governi amici: è ciò che è appena accaduto in Brasile”. Dal ruolo del Vaticano (“Sarà decisivo”) a quello di Cuba (“altro che democratizzazione, è ancora una esecrabile dittatura”), ecco le considerazioni a tutto campo dell’esperto.

Professor Sapelli, che cosa pensa della posizione assunta sul Venezuela dal vicepremier leghista nonché suo ex allievo Matteo Salvini, contro il regime di Maduro e a favore della legittima autoproclamazione a presidente del giovane capo dell’opposizione Juan Guaidò?

“Che è una posizione giusta e che andrebbe assunta ufficialmente dal Governo, anche perché non è accompagnata da nessuna intenzione di rappresaglia economica. Salvini dovrebbe però fare ancora di più e incoraggiare la mediazione del Vaticano, che sarebbe decisiva. La Chiesa ha sempre avuto una certa influenza sull’America Latina, a prescindere dal fatto che Papa Francesco sia anche sudamericano”.

Lo stesso Maduro ha chiesto l’intervento di Papa Francesco. Perché sarebbe così decisivo?

“Il Papa è l’unica soluzione per far dialogare un uomo vicino a Washington, come Guaidò effettivamente è, e la casta militare che ha il potere in Venezuela. Il problema non è solo Maduro, Maduro ormai non conta più niente, il problema in Venezuela sono i vertici delle forze armate che si sono impadroniti del Paese e che ne controllano le risorse economiche”.

Che cosa pensa di Guaidò?

“Lo conosco poco, è un esponente della classe media venezuelana, della generazione che ha visto crollare tutto. Mi ricorda un po’ l’ex presidente boliviano, Sánchez de Lozada, un moderato ma non brillantissimo. L’importante per il Venezuela è liberarsi di questa dittatura ma non credo che Guaidò sarà il leader del futuro. Nel corso della transizione verrà sostituito, è una figura troppo debole”.

E’ ipotizzabile un intervento militare degli Usa, come minacciato dal presidente Donald Trump?

“Non credo. C’è il rischio che monti sempre di più la guerra civile, questo sì, e che si intensifichi una guerra fredda che di fatto c’è già. Il Venezuela come noto è un Paese strategico, un grande esportatore di petrolio che viene però lavorato dalle grandi superpotenze, Usa in primis. A Caracas hanno forti interessi anche Russia, Cina e Iran, come del resto era accaduto in Brasile con Lula e proprio per questo agli americani faceva comodo farlo cadere per lasciare spazio a Bolsonaro. Non credo però che Russia, Cina o Iran interverranno attivamente nella vicenda, ne verrebbe fuori la terza guerra mondiale. Attenderanno il decorso degli eventi e si adegueranno di conseguenza”.

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Gli Usa stanno quindi rimettendo le mani sul Sudamerica, come raccontava lo scrittore uruguayo Eduardo Galeano e dopo gli esperimenti falliti degli anni 2000, dal Brasile di Lula all’Argentina di Kirchner fino proprio al chavismo in Venezuela, nel tentativo di smarcarsi dall’influenza a stelle e strisce?

“Assolutamente sì. Gli Usa in Venezuela vogliono prima di tutto spezzare il filo diretto tra Caracas e Paesi come Russia e Cina, e poi non a caso stanno progressivamente ridimensionando le loro velleità in Medio Oriente, proprio per riprendere il comando delle operazioni in America Latina, come avveniva in passato. La differenza rispetto al passato è che prima alimentavano conflitti e dittature militari, oggi invece mirano a disgregare gli equilibri sociali e i partiti storici, avvalendosi anche della magistratura, come è accaduto in Brasile con Lava Jato. Oggi gli Usa fanno leva sul tema della corruzione per orientare gli elettorati sudamericani”.

Ma questa corruzione, però, c’è effettivamente stata.

“Certo che c’è, come c’è dappertutto. Ricordiamoci però che Lula è stato condannato a 12 anni per un soppalco, e che a condurre l’inchiesta c’era un magistrato, Sergio Moro, che oggi con Bolsonaro fa il super ministro della Giustizia. Di recente ho fatto un viaggio in Sudamerica e sono stato anche in Brasile. Ho visitato Rio de Janeiro e San Paolo: ho trovato due città più pulite rispetto al passato, dove la situazione nelle favelas è migliorata, passando dalla marginalità alla povertà, che è un passo avanti. Questo è stato merito di Lula, anche se poi la sua delfina Dilma Rousseff è dovuta scendere a patti con il Fondo Monetario Internazionale e ha colpito la classe media, che ha risposto votando per Bolsonaro. Il nuovo presidente è ovviamente gradito a Washington, visto che vuole privatizzare Petrobras e anche i terreni agricoli, il che metterebbe in pericolo l’Amazzonia, con tutte le conseguenze ambientali del caso. Una differenza però, in Brasile e in Sudamerica, rispetto a quanto accaduto altrove c’è”.

Quale?

“Che in Brasile e in altri Paesi del Sudamerica ad essersi consegnate agli Usa sono state le destre, e non la sinistra. Mentre in Italia abbiamo avuto la sinistra ‘manettara’ dopo Tangentopoli, in Brasile abbiamo la destra che gioca quel ruolo. Ecco perché ritengo che paradossalmente la sinistra abbia ancora molto più futuro da quelle parti piuttosto che in Italia. Io scommetto che Bolsonaro sarà solo una parentesi e che il PT di Lula tornerà al potere con nuovo slancio. Senza Lula, con un nuovo leader, ma tornerà”.

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A proposito di sinistre in Sudamerica, uno degli ultimi baluardi dell’ondata rossa degli anni Duemila è Evo Morales, presidente della Bolivia, che però difende ancora Maduro. Sta commettendo un errore?

“Innanzitutto per me Morales non è di sinistra ma indigenista, aveva addirittura ipotizzato una secessione tra Bolivia bianca e Bolivia andina. Certo che sbaglia a sostenere Maduro, sbaglia ad isolarsi dagli altri Paesi sudamericani e a cercare così apertamente lo scontro con gli Usa”.

Tra i pochi a sostenere ancora Maduro c’è anche Cuba, il cui regime festeggia in queste settimane 60 anni e che sta tentando un timido tentativo di democratizzazione del Paese. La ormai probabile caduta del dittatore chavista indebolirebbe il ruolo de L’Avana nello scacchiere politico dell’America Latina?

“Non c’è nessun tentativo di democratizzazione: Cuba rimane una esecrabile dittatura, che ha fatto un danno immenso alle sinistre di tutto il mondo e alla stessa America Latina. La rivoluzione castrista è stata un evento tragico. Comunque sì, una svolta democratica in Venezuela lascerebbe ancora più isolata Cuba, che da Caracas riceve il petrolio e che a Caracas manda a lavorare i suoi medici”.

Un altro Paese chiave nella questione venezuelana è il Messico, che ha da poco un nuovo presidente, Lopez Obrador: si definisce un “populista di sinistra” e ha assunto una posizione neutrale, come quella dell’Uruguay, invocando nuove elezioni ma non riconoscendo la presidenza di Guaidò.

“Obrador è uno statista e a mio parere avrà un ruolo importante nel rilanciare un modello socialdemocratico in America Latina. Da un lato è stato bravo a mediare con Trump sulle relazioni commerciali tra Messico e Usa, dall’altro auspica che non ci sia un eccesso di ingerenza a stelle e strisce rispetto a quanto avviene a Caracas. La sua mi sembra una posizione corretta, anche considerando l’accoglienza che il Messico sta concedendo ai profughi dal Venezuela. Si parla poco della grande tragedia umanitaria: milioni di persone stanno fuggendo in Colombia, Perù, Argentina ma anche Messico, che in passato era un Paese assolutamente ostile nei confronti degli immigrati e che ora invece intelligentemente li accoglie ed offre loro opportunità di lavoro e di integrazione sociale”.

Un po’ come ha fatto Angela Merkel in Europa con i profughi siriani?

“Diciamo di sì, con la differenza che tra Paesi che parlano la stessa lingua, in questo caso lo spagnolo, è ancora più facile e naturale che ciò avvenga”.

Se è vero che molti modelli politici sudamericani degli ultimi anni stanno fallendo, quale è secondo lei un’esperienza che invece si rivelerà vincente?

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“Io dico che avremo una grande sorpresa dal Perù, dove dal 2018 c’è un nuovo presidente, Martín Alberto Vizcarra, che ha sostituito Pedro Pablo Kuczynski, anche lui – ancora una volta – coinvolto in uno scandalo di corruzione. Il Paese sta riprendendo in mano la sua economia, puntando giustamente sulle risorse minerarie e petrolifere e su un’industrializzazione light che credo lo porterà lontano. Anche politicamente è un laboratorio interessante perché sta crescendo un grande partito di centro, una novità assoluta per il Sudamerica e secondo me un fatto positivo. Comunque badate bene, la sinistra non ha fallito ovunque: sono stato di recente anche in Cile, dove si è da poco concluso il mandato di Michelle Bachelet, una leader socialista che ha introdotto un sistema di welfare molto avanzato, con strumenti come il salario minimo, facendo sì che ad esempio nella capitale Santiago il tasso di povertà sia sceso al 2%”.

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