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Intesa Sanpaolo ha uno dei maggiori uffici studi d’Italia, ma qual è la sua mission e come funziona? Gregorio De Felice racconta

FIRSTonline

Rispetto a trenta o quaranta anni fa sono poche oggi in Italia le società e le banche che possono ancora vantare un ufficio studi di grande rilievo, sia per il numero dei ricercatori che per la qualità degli studi e delle ricerche che producono. Per essere chiari, a parte l’ufficio studi della Banca d’Italia che rientra nelle funzioni istituzionali della banca centrale, in Italia ci sono solo due grandi uffici studi di spicco: quello di Mediobanca e quello di Intesa Sanpaolo. I media si occupano poco della realtà interna di queste fabbriche di idee ma capire quale sia realmente la loro mission di oggi, come funzionano e come si relazionano all’attività della banca a cui fanno capo è di grande importanza. E’ quanto abbiamo chiesto al chief economist di Intesa Sanpaolo, Gregorio De Felice. Ecco l’intervista che ha concesso a FIRSTonline

Dottor De Felice, la Research di Intesa Sanpaolo è oggi riconosciuta come uno dei maggiori uffici studi tra le società italiane: qual è esattamente la missione che la banca vi ha assegnato?

“La nostra mission, espressa in modo molto sintetico, è contribuire alla creazione di valore aggiunto per la banca attraverso la produzione di ricerca imparziale, indipendente e di elevata qualità, destinata sia alle esigenze interne (penso, ad esempio, agli scenari di budget o ai risk meeting) che alla clientela istituzionale, corporate e retail. Abbiamo anche l’ambizione di contribuire autorevolmente al dibattito sui temi di economia internazionale più rilevanti e sulle questioni strutturali più critiche del nostro Paese”.

Rispetto al mitico ufficio studi della Comit, che si è avvalso di collaborazioni di grande prestigio – come quella di Mario Monti – ed è stato poi assorbito da Intesa Sanpaolo, è evidente l’evoluzione del modello: più teorico e più macro quello di un tempo e più operativo e più legato non solo all’economia ma anche agli scenari dell’industria, dei territori, della banca, della finanza quello di oggi. Quando sono avvenuti il cambio di passo e il riposizionamento e perché?

“In realtà, il “mitico” Ufficio Studi della Comit (come lei lo definisce, ed era in effetti tale) nasce nei primi Anni Trenta da un’intuizione di Raffaele Mattioli che, affidandone la guida ad Antonello Gerbi, aveva voluto assegnargli un ruolo determinante nella ristrutturazione organizzativa della banca. Scriveva appunto Gerbi nel 1949 che: “Tutta l’arte di un Ufficio Studi sta proprio nell’equilibrare le esigenze di una buona informazione con quelle di una veloce risposta alle esigenze di tutti i giorni”.

Gli anni di Monti, che ha collaborato con diversi direttori (e tra questi ho vivissimo il ricordo di Vittorio Conti, a cui devo tanto per i suoi insegnamenti e per la fiducia che mi ha sempre dimostrato), spiccano per la grande capacità di elaborazione teorica, a cui hanno sempre fatto seguito proposte importanti di politica economica e monetaria. Penso, ad esempio, agli approfondimenti inclusi nella rivista Tendenze Monetarie: la misurazione del Credito Totale Interno, la definizione dei CCT come “banconote con cedola” e, quindi, del nuovo aggregato monetario M4, ma anche le critiche rivolte ai policy maker dell’epoca sull’uso del vincolo di portafoglio e del massimale sugli impieghi. Mi fa piacere infine ricordare gli indici Comit, sviluppati già a partire dagli Anni Settanta: il Comit 30, presentato al mercato nel 1992 e ceduto un paio d’anni dopo a Borsa Italiana, è stato a tutti gli effetti il “padre” dell’attuale FTSE MIB”.

Cosa cambiò con la privatizzazione della Comit e delle altre due banche di interesse nazionale?

“L’Ufficio Studi fu messo in discussione perché qualcuno riteneva che le sue principali aree di analisi non fossero pienamente in linea con le necessità della banca. Enrico Beneduce (all’epoca uno dei due Amministratori Delegati) volle dare una svolta positiva: nel 1995 fui chiamato a dirigere quello che allora si chiamava Ufficio Studi e Analisi Finanziaria, in cui era stata incorporata la struttura di ricerca che, prima nell’ambito del Servizio Titoli, seguiva i mercati azionari e obbligazionari. L’attenzione dell’Ufficio e le sue analisi si spostarono verso l’operatività: vennero avviati i primi bollettini giornalieri sui dati macro appena usciti o di prossima pubblicazione, le morning call quotidiane, la partecipazione ai risk meeting, …. La trasformazione in senso sempre più “operativo” ebbe poi un’accelerazione con le fusioni che hanno condotto alla nascita di Intesa Sanpaolo. L’analisi territoriale e dei distretti industriali ha trovato, ad esempio, un convinto sostenitore in Corrado Passera. La ricerca è stata poi estesa ai mercati emergenti e, in particolare, ai 12 paesi dove operano controllate del Gruppo Intesa Sanpaolo. Con l’attuale ceo Carlo Messina, è ulteriormente aumentato il coinvolgimento della Research nei processi di budget, nella pianificazione, nella definizione dei Piani d’impresa, nelle valutazioni di rischio”.

Com’è organizzata oggi la Research di Intesa Sanpaolo, quali sono i principali filoni di ricerca, quanti ricercatori vi lavorano?

“La Research può contare oggi su una novantina di collaboratori, tra analisti, economisti e editor. Il modello organizzativo è accentrato: praticamente tutta l’attività di ricerca con caratteristiche (come accennavo prima) di imparzialità e indipendenza è concentrata nella nostra unità organizzativa. I filoni di indagine sono decisamente numerosi: spaziano dalla macroeconomia (che copre sia le economie avanzate che quelle emergenti), ai mercati finanziari (titoli di Stato, valute e commodity), ai sistemi bancari, alle analisi sui settori industriali, sui servizi pubblici locali, sulle economie territoriali. Uno spazio crescente è assegnato alla ricerca sugli emittenti di strumenti finanziari negoziati sui mercati italiani ed esteri, oltre che sulle società non quotate e oggetto di IPO. L’ultimo progetto in corso riguarda l’estensione della copertura dei principali titoli azionari europei: entro fine anno, arriveremo a seguire circa 80 società non italiane”.

Chi sono i destinatari finali delle vostre ricerche e dei vostri studi? Hanno finalità principalmente interne alla banca o sono orientati anche all’esterno?

“La nostra attività è orientata sia alle esigenze interne che agli stakeholder esterni. Partiamo dai clienti esterni (istituzionali, corporate e al dettaglio): a loro è dedicata una vastissima gamma di pubblicazioni, in italiano e in inglese, che coprono praticamente tutte le aree di indagine. Riscontriamo un forte interesse per la nostra ricerca anche da parte delle istituzioni, del mondo accademico e delle associazioni di categoria o altri centri di ricerca privati, con cui intratteniamo proficui rapporti di collaborazione. I clienti interni assorbono una quota rilevante del nostro lavoro: potrei anzi dire che rappresentano il nostro principale committente, a cui forniamo analisi di scenario, previsioni, contributi alla pianificazione strategica, ma anche briefing quotidiani con i sales e con le sale operative. Si è inoltre progressivamente consolidata la partecipazione a numerosi comitati interni, dedicati sia all’analisi dei rischi che alla progettazione di nuovi prodotti. Infine, c’è una componente significativa di supporto al business nella relazione con i clienti, sempre, ovviamente, nel rispetto del principio di indipendenza che è una caratteristica imprescindibile della ricerca in materia di investimenti”.

Come si spiega che, a differenza di quanto avveniva fino agli anni ’90 quando tra le società pubbliche e private italiane c’erano gloriosi uffici studi (oltre al vostro e prima quello della Comit, quello di Mediobanca, del Credito Italiano, della Fiat, dell’Olivetti, dell’Eni, della Montedison, della Pirelli e altri ancora), oggi c’è il deserto e nelle grandi società italiane gli uffici studi di rilievo sono solo il vostro e quello di Mediobanca mentre sul piano istituzionale è rimasto solo quello della Banca d’Italia?

“Non vorrei entrare nel merito di altre realtà di ricerca che, comunque, ancora esistono in Italia, ciascuna con le proprie caratteristiche e specificità. Rispondo per Intesa Sanpaolo, riprendendo un aneddoto che risale alla metà degli Anni Novanta. Nell’avviare la ristrutturazione dell’Ufficio Studi, cui ho accennato poco fa, Enrico Beneduce ci invitò a “ribaltare” letteralmente l’operatività, dedicando l’80% degli sforzi alle esigenze della banca e il restante 20% all’attività di ricerca. Credo che stia qui la chiave per comprendere la centralità del nostro ruolo in azienda: la capacità di venire incontro alle esigenze del business, facendo leva su competenze consolidate di analisi teorica. Un esempio: i nostri studi sulle filiere produttive hanno contribuito alla nascita dei contratti di filiera che, attraverso il coinvolgimento dell’impresa capofila, assicurano anche alle aziende più piccole la possibilità di godere di migliori condizioni di credito e di maggiori opportunità di investimento.  

C’è poi un altro punto importante: come spesso ricorda il nostro CEO, Intesa Sanpaolo è un’istituzione tra le più rilevanti in Italia. Un ruolo così significativo richiede capacità di analisi ed elaborazione che le consentano di inserirsi autorevolmente nel dibattito economico e di intervenire sulle questioni cruciali del Paese. È questa, credo, la seconda ragione che motiva l’esistenza di un’unità di ricerca con le caratteristiche e la complessità di quella di Intesa Sanpaolo: non è un caso che sia esplicitamente citata nella nostra mission”.

Che effetto avrà l’Intelligenza Artificiale sulla vostra attività di studio e di ricerca e quali saranno gli obiettivi e le prossime tappe della vostra evoluzione?

“Ci sono diverse aree in cui l’Intelligenza Artificiale sta già modificando il nostro modo di lavorare: ad esempio le traduzioni, la sintesi di documenti, il reperimento di bibliografia, la scrittura di codice per l’automazione delle procedure, la redazione dei report (sotto il profilo del miglioramento dello stile, del suggerimento di titoli …). In prospettiva, l’IA permetterà di risparmiare tempo dedicato ad attività che potremmo definire “accessorie” ma che risultano comunque indispensabili allo svolgimento della ricerca: ad esempio l’analisi di dati e comunicati, la modellizzazione, la creazione automatica di presentazioni da documenti “in verticale”. Tutto questo aumenterà l’efficienza e la produttività di analisti ed economisti, migliorando la loro capacità decisionale.

Non dobbiamo tuttavia dimenticare che l’analisi economica e finanziaria non sono scienze esatte, e che la valutazione non è un processo deterministico. Pensando ad esempio alla ricerca equity, non esistono “black box” dalle quali, “inserendo” i numeri all’interno, è possibile estrarre il corretto valore di un’impresa. La valutazione è un processo basato su elementi qualitativi e quantitativi, combinati con un’ampia dose di giudizio soggettivo, esperienza e buon senso da parte dell’analista.  Sono questi ultimi la migliore garanzia per chi investe, e lo saranno sempre: nessun modello, per quanto complesso, e nessuna chatbot, per quanto evoluta, potranno sostituirli”.

Dal vostro osservatorio, che previsioni fatte sull’andamento dell’economia italiana per tutto il 2024? Continueremo a crescere più di Francia e Germania ma dovremo rassegnarci a salari più bassi e quali sono le riforme più urgenti per un salto di qualità della nostra economia?

“L’Italia sta vivendo un momento positivo rispetto alle altre economie europee. La crescita del PIL, da fine 2021 alla previsione di fine 2024, è pari al 6%, contro il 4,7% dell’Area euro, il 4,4% della Francia e appena il 2,1% della Germania. Questo cambio di marcia è legato alla forte ripresa degli investimenti che tra il 2016 e il 2023 hanno segnato in Italia un aumento del 35,7%, molto meglio di Francia (+19,2%), Spagna (+14,3%) e Germania (+4,5%).

Industria 4.0 (dal 2017) e Superbonus (dal 2021) spiegano questo risultato, sintesi del balzo delle costruzioni (+47,1% nel periodo 2016-2023), ma anche della dinamica degli investimenti in macchinari, mezzi di trasporto e ICT (+29,3%) e in beni immateriali (R&S e software, +20,2%).

A partire dalla seconda parte dell’anno, ci aspettiamo una ripresa dell’economia italiana che potrà contare sul contributo dei consumi con le famiglie che hanno recuperato potere di acquisto grazie al rientro della fiammata inflazionistica. Gli investimenti si riprenderanno con la riduzione dei tassi di interesse e la realizzazione dei progetti del PNRR, con potenziali ricadute positive sul rilancio delle infrastrutture e sulla transizione digitale e green.

I salari in Italia sono più bassi che altrove in Europa evidenziando una situazione sempre meno sostenibile. È indispensabile un forte incremento di produttività e un processo di riforme che renda più semplice fare impresa nel nostro Paese. In ultima analisi, un aumento del tasso di crescita potenziale del PIL può innescare un processo virtuoso a vantaggio anche delle lavoratrici e dei lavoratori”.  

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