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Vendere un po’ di azioni se le Borse salgono e comprare dollari a 1.15

ImagoEconomica

La telomerasi è un enzima che se ne sta attaccato alle estremità dei cromosomi in una specie di cappuccio che viene chiamato telomero. L’enzima ha la funzione di riparare i telomeri a ogni replicazione cellulare. Nel corso della vita la telomerasi smette di funzionare e i telomeri si accorciano progressivamente. L’accorciamento dei telomeri è collegato all’invecchiamento e all’insorgenza di tumori.

Nelle aragoste la telomerasi non smette mai di funzionare, al punto che la fertilità aumenta progressivamente con l’età. Le aragoste, che vivono fino a 70 anni, non muoiono di vecchiaia, ma per la fatica e lo stress metabolico dovuti alla muta. Negli anni l’animale diventa infatti sempre più grosso e l’energia richiesta per rinnovare periodicamente il suo esoscheletro cresce fino al punto di farlo cadere esausto e privo di vita. Se non fosse per questo l’aragosta sarebbe immortale.

Immortale sul serio è invece la Turritopsis Dohrnii, una specie di medusa che reagisce allo stress ringiovanendo. Grazie a un processo di transdifferenziazione, la medusa si trasforma periodicamente in polipo per poi ritrasformarsi in medusa. Teoricamente all’infinito, in pratica no perché, nelle fasi in cui è medusa, viene prima o poi divorata da un predatore. Mortalità e immortalità, negli umani, sono sovraccaricate di significati emotivi. C’è chi spende una piccola fortuna in farmaci anti-invecchiamento o per farsi un giorno surgelare (in modo da potere resuscitare fra cento o mille anni quando biologia e medicina avranno fatto altri progressi) e c’è chi prova orrore per l’idea stessa di immortalità, considerata blasfema, contronatura e manifestazione suprema di hybris.

Altri se la cavano indicando la noia che ci invaderebbe sapendoci immortali, trascurando il fatto che si morirebbe comunque, prima o poi, per shock esogeno (trauma, incidente, bomba atomica, asteroide). È, in grande, lo stesso dibattito che c’è in piccolo quando si parla della mortalità dei cicli economici. Per alcuni non sta scritto da nessuna parte che un ciclo debba finire per cause endogene. Era l’idea, stracarica di hybris, che stava alla base del concetto di Grande Moderazione. Eravamo negli anni 2005-2006, quando si pensava, molto compiaciuti, di avere trovato il modo per crescere all’infinito a velocità costante e con bassa inflazione. Pochissimi, allora, avevano meditato sulla lezione di Hyman Minsky, che già alla fine degli anni Sessanta aveva notato che i lunghi periodi di crescita stabile creano la sensazione di vita eterna del ciclo e producono bolle azionarie, obbligazionarie e immobiliari che a un certo punto, scoppiando, ricadono sul ciclo e lo compromettono.

Dopo la crisi del 2008-2009 il dibattito sulla longevità ha preso una direzione diversa e si è tradotto in una sorta di patto col diavolo. Il ciclo avrà vita lunghissima, si è detto, a condizione che la crescita sia bassa. Uno stato di semi-ibernazione o di letargo, quindi. Il pericolo, in questo contesto, è stato individuato non in una possibile causa endogena (l’esaurimento dell’output gap e il conseguente avvio dell’inflazione), ma in cause esogene, come il riformarsi di bolle sugli asset finanziari da una parte o, dall’altra, nella possibilità di crisi del debito e di ondate di fallimenti in un mondo troppo a leva. A quest’ultimo problema si è cercato di rispondere con una politica di tassi reali negativi, in modo da trasferire progressivamente risorse dai creditori ai debitori. Al rischio di bolle, alimentato anche dai tassi
negativi, si è cercato di rispondere con la moral suasion sui mercati, che fino a questo momento, almeno nell’azionario, ha funzionato.

Negli ultimi sei mesi il dibattito sulla longevità del ciclo ha cambiato di nuovo direzione. Il continuo ridursi della disoccupazione in America e il parallelo e conseguente manifestarsi dell’inflazione salariale hanno fatto pensare alla fine del patto col diavolo. All’improvviso il ciclo americano è apparso mortale per cause endogene tradizionali, esacerbate da una Fed intenzionata ad aumentare i tassi piuttosto aggressivamente. Al tempo stesso il resto del mondo è apparso invece scivolare verso una crisi deflazionistica classica (sovrapproduzione cinese, eccesso di offerta di materie prime, pericolosa debolezza del sistema bancario europeo, possibili ondate di fallimenti, prezzi in caduta). Metà del mondo avviata al surriscaldamento, dunque, e l’altra metà nella morsa dei ghiacci.

Nella fase più recente queste paure sono rientrate per due ordini di motivi. Il primo è che, guardando meglio i dati, si è capito che il quadro non è così compromesso come si era pensato. L’occupazione in America continua a crescere velocemente, è vero, ma al tempo stesso ha preso a crescere anche la forza lavoro. Molti giovani, donne, anziani e semioccupati che erano rimasti ai margini ora rientrano nel mercato del lavoro, allentando in questo modo la pressione al rialzo sui salari. L’inflazione complessiva appare in rialzo, ma la forza di questa accelerazione nei prossimi mesi sarà modesta. Nell’altra metà del mondo, poi, si è constatato che la crescita continua, trainata dalla domanda vivace di beni di consumo in Europa e in Asia.

Ci sono poi i paesi emergenti che in molti casi, pur non avendo ancora imboccato la strada della ripresa, appaiono quanto meno in fase di stabilizzazione. Il secondo ordine di motivi è la risposta dei policy maker. La Cina ha dimostrato di volere proseguire sulla strada del contenimento delle aree di sovrapproduzione, dello stimolo ai consumi e nella stabilizzazione del cambio e della borsa. L’Europa, che ha già da tempo una politica fiscale moderatamente espansiva (non contano gli obiettivi di Bruxelles, contano gli sforamenti di fatto), ha imboccato una politica monetaria più intelligentemente espansiva, allentando al tempo stesso la pressione regolatoria sulle banche, che stava diventando destabilizzante e controproducente.

L’America, dal canto suo, sembra disposta a un atteggiamento più conciliante verso i rischi che l’invecchiamento del ciclo comporta. Invece di sottoporsi a una dieta severa di rialzi dei tassi in modo da prevenire un’inflazione che è ancora molto benigna, si sottoporrà a una dieta dolce di soli due rialzi quest’anno. La dieta severa di quattro rialzi in America e la scelta europea di rendere sempre più difficile la vita delle banche proprio quando più si ha bisogno di loro erano state intese come misure anti-invecchiamento. Ora si è capito che le diete troppo severe e gli eccessi di virtù possono avere effetti collaterali pesanti e, calibrate male, anche fatali.

Paradossalmente, quindi, è proprio l’abbandono delle terapie anti-ageing più aggressive che può allungare la vita del ciclo. Come notano spesso i gerontologi, un bicchiere di vino ogni tanto anche in tarda età e un atteggiamento più conciliante verso le cose possono allungare la vita più di un ansiogeno e ossessivo programma d fitness. Purché non si esageri, ovviamente. Gli effetti benefici di questo nuovo approccio sono ben evidenti nei mercati. Gli spread di credito si stanno riducendo, le borse hanno una convalescenza tranquilla dopo i trauma di gennaio e febbraio. Il modesto indebolimento del dollaro, dal canto suo, ha l’enorme e benefico effetto collaterale di mettere al riparo il renminbi da attacchi speculativi e dà tempo alla Cina per proseguire lungo la strada delle riforme.

Draghi, nel suo intervento della settimana scorsa, ha fatto capire che i tassi europei rimarranno vicinissimi a zero almeno fino al 2020. La Fed, ieri, ha tracciato un percorso molto rassicurante per i prossimi tre anni. Le cose, come ha sottolineato più volte la Yellen, possono sempre cambiare e le banche centrali, quando prevedono il futuro, hanno dimostrato di non essere infallibili. Fatte salve tutte queste premesse, resta comunque l’impressione che questo ciclo, se gestito con equilibrio e prudenza, possa ancora avere qualche anno di vita. Questo ci pare strutturalmente molto confortante, così come è positivo che il mercato si mantenga prudente e composto. Nel breve termine, tuttavia, non siamo tentati da un aumento dell’esposizione al rischio.

Nelle prossime quattro settimane gli acquisti di azioni proprie in America saranno sospesi (come sempre accade nel mese che precede la comunicazione dei risultati trimestrali). I risultati, a loro volta, risentiranno del rallentamento della produzione industriale globale di gennaio e febbraio. Una volta terminata la comunicazione degli utili, ai primi di maggio, mancherà poco più di un mese al referendum su Brexit e, probabilmente, al rialzo dei tassi americani. Pur confortati sul medio termine e sul mantenimento di un nocciolo duro di azioni e crediti, saremmo piuttosto moderatamente venditori nelle prossime settimane se i mercati continuassero a salire. Saremmo invece convinti compratori di dollari a 1.15.

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