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Ricchezza e benessere: un confronto fra Italia e Ue

L’Italia se la passa abbastanza male in molti campi: dalla spesa in ricerca e sviluppo (1,3% del Pil contro una media europea dell’1,9%), all’occupazione tra i giovani sotto i 24 anni (meno del 20% contro più del 50% in Austria e Danimarca). Ci sono però degli indicatori in cui le tendenze sono più complesse, in particolare per il debito. E’quanto emerge da uno studio pubblicato martedì 27 ottobre da Matignon (il Palazzo Chigi francese) dal titolo “Les nouveaux Indicateurs de Richesse”, che propone indicatori interessanti anche per l’Italia, poiché consentono di misurare lo stato dell’economia sulla base di indicatori complementari al Pil e coerenti con la strategia Europe2020 della Commissione Europea a favore di una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva.

Il debito pubblico italiano è alto. Anzi, altissimo. In compenso è abbastanza modesto quello delle imprese e delle famiglie. Ovviamente, c’è però uno spiazzamento sui mercati finanziari che penalizza il privato rispetto al pubblico. Anche sugli indicatori di benessere il quadro non è univoco. A 60 anni un italiano ha una speranza di vita attesa di ulteriori 22,6 anni, come i cugini latini (Francia e Spagna) e gli svedesi, e più degli altri. E, pur priva di nucleare, l’Italia ha le più basse emissioni di CO2 insieme alla Francia.

Tutto bene? Forse no, perché la valutazione che gli italiani danno della qualità della propria vita (6,7 su 10) è sotto la media e lontanissima dai valori registrati in Scandinavia, ma anche in Germania e Regno Unito (7,3), Francia e Spagna, mentre il tasso di privazione è il più alto dell’UE (24%, contro 19,6%). Del resto nel nostro paese è anche maggiore l’ineguaglianza nella distribuzione del reddito, che oltretutto dopo essere diminuita durante il secondo governo Prodi, ha riiniziato a crescere dal 2008.

In ogni caso, ciò che è indubbio è che esercizi di questo tipo sono essenziali per migliorare le politiche pubbliche, a livello sia nazionale sia europeo. Bisogna ragionare sul lungo periodo e questi indicatori descrivono tendenze e progressi per poter chiarire la natura delle sfide veramente importanti cui l’Italia e i suoi governanti devono fare fronte.

“L’Italia se la passa abbastanza male in molti campi: dalla spesa in ricerca e sviluppo (1,3% del Pil contro una media europea dell’1,9%), all’occupazione tra i giovani sotto i 24 anni (meno del 20% contro più del 50% in Austria e Danimarca)”. Lo segnala Andrea Goldstein, managing director di Nomisma per la ricerca, in riferimento a uno studio pubblicato martedì 27 ottobre da Matignon (il Palazzo Chigi francese) dal titolo “Les nouveaux Indicateurs de Richesse”, che offre interessanti indicatori anche per l’Italia, consentendo di misurare lo stato dell’economia sulla base di indicatori complementari al Pil e coerenti con la strategia Europe2020 della Commissione Europea a favore di una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva.

“Ci sono però degli indicatori in cui le tendenze sono più complesse – prosegue Goldstein –, in particolare per il debito alto, anzi altissimo (quello del settore pubblico), ma in compenso abbastanza modesto per quanto concerne quello delle imprese e delle famiglie. Ovviamente, c’è però uno spiazzamento sui mercati finanziari che penalizza il privato rispetto al pubblico”.

Anche sugli indicatori di benessere il quadro non è univoco. A 60 anni un italiano ha una speranza di vita attesa di ulteriori 22,6 anni, come i cugini latini (Francia e Spagna) e gli svedesi, e più degli altri. E, pur priva di nucleare, l’Italia ha le più basse emissioni di CO2 insieme alla Francia.

“Tutto bene? Forse no – continua Goldstein –, perché la valutazione che gli italiani danno della qualità della propria vita (6,7 su 10) è sotto la media e lontanissima dai valori registrati in Scandinavia, ma anche in Germania e Regno Unito (7,3), Francia e Spagna, mentre il tasso di privazione è il più alto dell’UE (24%, contro 19,6%). Del resto nel nostro paese è anche maggiore l’ineguaglianza nella distribuzione del reddito, che oltretutto dopo essere diminuita durante il secondo governo Prodi, ha riiniziato a crescere dal 2008”.

In ogni caso, “ciò che è indubbio – conclude Goldstein – è che esercizi di questo tipo sono essenziali per migliorare le politiche pubbliche, a livello sia nazionale sia europeo. Bisogna ragionare sul lungo periodo e questi indicatori descrivono tendenze e progressi per poter chiarire la natura delle sfide veramente importanti cui l’Italia e i suoi governanti devono fare fronte”

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