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Referendum Scozia, oggi è il giorno della verità: si vota sull’indipendenza da Londra

Potrebbe essere la data più importante negli ultimi 300 anni di storia britannica. Un po’ come il 4 luglio negli Stati Uniti, il 18 settembre 2014 rischia di essere ricordato dagli scozzesi come il giorno dell’indipendenza. Dipenderà tutto dal referendum di oggi, che pone a 4,3 milioni di persone una domanda semplice: siete favorevoli alla secessione dalla Gran Bretagna?

Il 97% degli aventi diritto al voto si è registrato negli uffici elettorali locali e si prevede un’affluenza alle urne superiore all’85%. Un record, considerando che la media alle elezioni politiche britanniche è del 7%. I seggi saranno aperti dalle 7 del mattino (le 8 in Italia) fino alle 22 ora locale (le 23 in Italia).

Quanto ai primi risultati, gli exit poll sono illegali nel Regno Unito, ma il comitato per il Sì non esclude che piccole società di sondaggi possano effettuare rilevamenti a livello locale. Per votare non occorre essere maggiorenni, basta aver compiuto 16 anni. In effetti, non serve nemmeno essere scozzesi: possono votare anche inglesi, gallesi, nordirlandesi, tutti i cittadini comunitari e i cittadini originari dei 52 Paesi del Commonwealth, purché abitino e paghino le tasse in Scozia. 

Il risultato finale è ancora incerto. Tre sondaggi pubblicati nella notte fra martedì e mercoledì da Daily Telegraph, Daily Mail e Scotsman hanno dato uno scarto del 4% a favore dei No: gli unionisti sarebbero al 52%, contro il 48% dei secessionisti. Il margine non è dei più rassicuranti per il governo di Londra, anche perché – oltre al margine d’errore statistico – è bene ricordare che fra agosto e settembre la fazione del Sì ha colmato quasi del tutto un gap che sembrava irrecuperabile, superiore ai 20 punti percentuali.

Ma se la rimonta avesse successo, cosa accadrebbe? In caso di secessione si aprirebbero scenari imprevisti e imprevedibili a livello economico e politico. A cominciare dal futuro che attende la moneta di Sua Maestà.  

LA STERLINA

Il governo britannico ha annunciato più volte che, se vinceranno i Sì, alla Scozia indipendente sarà proibito l’utilizzo della sterlina. Ma secondo Alex Salmond, primo ministro nel Parlamento di Edimburgo e leader del partito scissionista Snp (Scottish National Party), quello di Londra è solo un bluff elettorale e nel nuovo stato continueranno a circolare i vecchi pound. 

Come ciò possa accadere, tuttavia, ancora non è chiaro. Le strade percorribili sono due: la creazione di una sorta di “Area Sterlina” a imitazione dell’Eurozona, oppure l’adozione della valuta britannica in via informale, al pari di quanto accade in Kossovo con l’euro e a Panama con il dollaro. 

Ci sarebbero però due ostacoli da superare: nel primo caso l’opposizione di Londra all’area valutaria comune, nel secondo la prevedibile fuga degli istituti di credito scozzesi, che si trasferirebbero in terra inglese per continuare a sfruttare la Bank of England come prestatrice di ultima istanza. In questo caso la Scozia si ritroverebbe senza banche e senza potere sulla moneta.  

D’altra parte, le alternative non sono infinite. La prima è l’adozione dell’euro, non disdegnata dallo Snp, che però implicherebbe un sistema di controllo ben più invasivo di quello inglese e richiederebbe in primo luogo l’ingresso nell’Ue, tutt’altro che immediato; la seconda è la creazione di una Banca centrale scozzese che emetta una nuova moneta. Si tratterebbe certamente di una valuta assai debole e soggetta alla speculazione, a meno di non agganciarla alla sterlina. La “sterlina scozzese”, inoltre, aiuterebbe a rianimare il malandato export scozzese, ma danneggerebbe potere d’acquisto e conti pubblici.

I CONTI PUBBLICI

Forse ancor più complesso del capitolo valutario è proprio quello che riguarda il bilancio dell’eventuale nuovo Stato. La questione centrale è la spartizione del debito pubblico. Secondo i calcoli dell’Istituto nazionale della ricerca economica e sociale inglese (Niesr), il debito di competenza scozzese, su base censuaria, oscillerebbe tra i 121 e 143 miliardi di sterline, pari a una percentuale compresa fra il 73 e l’86% del Pil. Dopo la divisione, inoltre, il resto del Regno Unito vedrebbe salire il proprio rapporto debito-Pil dall’attuale 90,6% fino a una quota compresa fra il 94 e il 101%. 

Anche su questo fronte, tuttavia, il contenzioso sarebbe inevitabile. L’Snp ha già minacciato il governo centrale: se non ci sarà un’unione monetaria, Edimburgo rifiuterà di farsi carico della sua quota del debito (il Tesoro britannico, per rassicurare i mercati, si è impegnato a garantire l’intero debito nella fase di transizione all’indipendenza). Nel corso dei negoziati, inoltre, Londra potrebbe ricordare come in passato la Scozia abbia ricevuto trasferimenti dallo Stato centrale che hanno contribuito non poco ad aumentare il debito britannico. Edimburgo, da parte sua, potrebbe chiedere che dalla sua quota di debito vengano scomputate le tasse che il Regno Unito ha raccolto sull’estrazione del petrolio scozzese.

IL PETROLIO DEL MARE DEL NORD

Si arriva così a uno dei punti più sensibili dell’eventuale secessione: la proprietà dei giacimenti petroliferi nel Mare del Nord. Sempre stando ai calcoli del Niesr, alla Scozia indipendente dovrebbe spettare circa il 91% del fatturato prodotto dalla vendita del petrolio, perché la maggior parte delle risorse si trova nelle sue acque territoriali. D’altra parte, ancora una volta la questione darebbe il via a interminabili negoziati, se non altro perché fino a oggi la maggior parte degli investimenti su pozzi e piattaforme è arrivata dal governo britannico o dal colosso British Petroleoum.

Occorre poi tener presente il problema della redditività: negli ultimi anni, infatti, l’andamento del prezzo dell’oro nero e alcune chiusure impreviste hanno fatto sprofondare i ricavi prodotti dal petrolio scozzese. Dai 12,4 miliardi di sterline del 2008-2009 si è passati ai 6,5 miliardi del 2012-2013. Una cifra destinata a scendere ulteriormente: nella più rosea delle previsioni, secondo l’Office of Budget Responsability, nel 2017-18 il fatturato dovrebbe assestarsi sui 3,5 miliardi di sterline, ovvero meno della metà dei 7,3 previsti dall’Snp per lo stesso periodo. 

PENSIONI E SANITA’

Non si possono poi trascurare i due problemi che secondo The Economist sarebbero in cima alla lista delle questioni da risolvere per una Edimburgo separata da Londra: pensioni e sanità. Il fronte previdenziale è quello più preoccupante, poiché – in virtù del flusso costante di giovani scozzesi che emigrano in terra inglese per trovare lavoro –, nei prossimi anni il rapporto fra attivi e pensionati calerà in Scozia, mentre aumenterà in Inghilterra. Quanto alla la salute, uno studio pubblicato dall’Ocse colloca la qualità della vita scozzese fra le ultime tre d’Europa, basti pensare che in città come Glasgow la speranza di vita media non supera i 69 anni. 

Per sanità e pensioni, finora, la maggior parte del conto scozzese è stato pagato da Londra. Da dove arriveranno i soldi in caso di secessione? Salmond parla d’istituire un fondo sovrano che – alimentato con i proventi del petrolio – investa sui mercati finanziari, prendendo a modello l’esperienza norvegese. I secessionisti sostengono inoltre che la Scozia possa ancora estrarre petrolio e gas per 1.500 miliardi di sterline e che le entrate fiscali legate all’oro nero garantiranno 57 miliardi da qui al 2018. Numeri che però, secondo alcuni esperti, sarebbero largamente sovrastimati. 

In termini generali, diversi economisti sottolineano come oggi la spesa pubblica scozzese superi le entrate fiscali prodotte. Il nuovo governo indipendente dovrebbe quindi iniziare la storia del nuovo Paese con due provvedimenti poco graditi: taglio della spesa pubblica e aumento delle tasse.

COSA RISCHIA IL REGNO UNITO

In caso di secessione, il resto del Regno Unito – oltre a perdere un terzo del territorio e un decimo degli abitanti – pagherà un prezzo più politico che economico. L’eventuale perdita della Scozia rischierebbe di mettere in discussione il seggio britannico nel G7 come quello nel Consiglio di sicurezza dell’Onu. Senza gli elettori scozzesi, inoltre, è possibile che al referendum del 2017 sulla permanenza nell’Unione europea vinceranno i separatisti. Nel frattempo, è prevedibile che Galles e Irlanda del Nord cerchino di seguire le orme di Edimburgo.
 
LA REAZIONE DEI MERCATI

Quanto ai mercati, fin qui, la prospettiva della secessione scozzese non ha provocato veri e propri crolli sui listini azionari. Nel mirino degli investitori è finita piuttosto la sterlina, che si è fortemente indebolita. Per Kevin Daly, economista di Goldman Sachs e autore di un report sul caso scozzese, “un voto positivo a favore dell’indipendenza rimane improbabile, ma nel caso in cui si assista a sorpresa alla vittoria dei Sì, le conseguenze a breve termine per l’economia scozzese, e più in generale per quella del Regno Unito, potrebbero essere disastrose.” Le paure ruotano soprattutto attorno a una possibile unione monetaria fra la Scozia indipendente e il resto del Paese, che potrebbero portare a una “svendita degli asset scozzesi”. L’unione della sterlina “potrebbe portare a una crisi monetaria in stile europeo all’interno del Regno Unito”, le cui conseguenze sarebbero “incalcolabili”, conclude Daly.

Anche secondo gli analisti di Credit Suisse la probabilità che vinca il Sì al referendum non supera il 25%. Gli economisti del broker svizzero ritengono che, in caso di secessione, le società scozzesi dell’export (come Diageo e Pernod Ricard) potrebbero avere dei vantaggi, mentre sarebbero penalizzate banche come Rbs, Lloyds e Tsb.


Allegati: eBook goWare: “Scenari scozzesi”

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