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Pensioni, Ape e Rita: la linea Maginot del Governo

L’Ape (Anticipo pensione) nelle sue diverse tipologie, ormai operative o in via di completamento, e le agevolazioni per i c.d. precoci (i cui criteri di accesso sono i medesimi dell’Ape sociale) svolgono la medesima funzione strategica (ovviamente nel contesto del sistema pensionistico) che lo Stato Maggiore francese, prima della Seconda guerra mondiale, aveva affidato alla Linea Maginot: quella di resistere ad un assalto frontale delle truppe tedesche, dal momento che era ritenuto ahimè improbabile che la Germania violasse di nuovo (come durante la Grande Guerra) la neutralità di Belgio e Olanda, per attaccare da Nord Ovest. Manovra che, invece, fu ripetuta regolarmente, spaccando in due il fronte anglo-francese (chi non lo avesse ancora fatto corra a vedere il magnifico film di Christopher Nolan “Dunkirk”) ed aggirando le fortificazioni della Linea Maginot che da allora in poi divennero un comodo rifugio per piccioni e topi.

Fuor di metafora, nel predisporre la legge di bilancio per il 2017 il brain trust di Palazzo Chigi ha avuto la brillante intuizione dell’Ape allo scopo di evitare – allora si parlava di flessibilità in uscita – un’onerosa revisione delle norme sull’età pensionabile come modificate dalla riforma del 2011. Il piano del Governo era così riassumibile: con l’Ape sociale (una misura prettamente assistenziale a carico della fiscalità generale) si consente a chi ne ha una necessità oggettiva – a fronte dei requisiti richiesti – di uscire dal mercato del lavoro con tre anni di anticipo rispetto al compimento dell’età di vecchiaia; mentre paga di tasca propria chi vuole utilizzare questa possibilità al di fuori delle esigenze riconosciute. L’Ape volontaria è tecnicamente un prestito, regolato e controllato, ma da restituire attraverso ratei ventennali sull’importo della pensione una volta travalicato il traguardo magico ed agognato della quiescenza. Come è noto l’Ape è una misura sperimentale sino a tutto il 2018, mentre il provvedimento “gemello” (sui precoci) ha già carattere strutturale.

L’INPS sta esaminando le domande di accesso (66mila in totale) all’Ape sociale e alla pensione anticipata per i precoci presentate entro il termine dello scorso 15 luglio, in modo da inviare tutte le risposte entro il 15 ottobre. Nel caso in cui gli stanziamenti per il 2017 risultassero inadeguati, per le domande in eccesso la concessione del beneficio previdenziale slitterebbe al 2018. Se viceversa le domande presentate entro il 15 luglio non esaurissero le risorse disponibili, l’INPS potrà accogliere anche eventuali richieste successive al 15 luglio, presentate però entro il prossimo 30 novembre. Considerando il numero delle domande e il fatto che ve ne saranno diverse non corredate di una documentazione corrispondente ai requisiti richiesti, c’è da ritenere che le prestazioni riconosciute non si discosteranno troppo da quelle previste. E che gli stanziamenti previsti saranno sufficienti.

Nel confronto tra Governo e sindacati in materia di previdenza (in queste occasioni si parla sempre troppo di pensioni e troppo poco di lavoro) si assiste ad un nuovo tentativo di aggirare la Linea Maginot e di colpire al cuore la riforma Fornero. È in atto una potente offensiva politica e sindacale (a cui non mancherà un adeguato sostegno mediatico) per conseguire il blocco (per ora temporaneo) dell’aggancio automatico all’attesa di vita. Poi, si sa, da cosa nasce cosa. Anche senza voler fare processi alle intenzioni, è stato così anche per la modesta penalizzazione economica introdotta dalla riforma Fornero per quanti si avvalessero del pensionamento anticipato prima dei 62 anni: al rinvio per ben due volte è seguita la soppressione.

A questo nuovo assalto il Governo ha risposto con qualche palata di cemento sulle crepe della sua Linea Maginot: le agevolazioni per le lavoratrici (sei mesi per ogni figlio fino ad un massimo di due anni) per quanto riguarda l’età a cui è possibile richiedere l’Ape sociale, un requisito contributivo ridotto di due anni e un allargamento delle tipologie dei lavori disagiati che consentono di entrare nella platea degli aventi diritto alla prestazione. Che dire? Le donne che per la loro posizione nel mercato del lavoro sono praticamente obbligate ad avvalersi del pensionamento di vecchiaia dal momento che non dispongono di storie lavorative tali da consentire il pensionamento anticipato a prescindere dall’età anagrafica (le lavoratrici private hanno in media un’anzianità contributiva pari a 25,5 anni contro i 39 degli uomini). Pertanto, la parificazione del requisito anagrafico con quello degli uomini sta incidendo notevolmente sulla possibilità e i tempi del pensionamento delle donne.

Ma siamo sempre lì: dove sta scritto che la donna (anche in considerazione della maggiore aspettativa di vita) deve uscire prima dal mercato del lavoro e andare in pensione (ovviamente con un trattamento meno adeguato) il più presto possibile? Soprattutto nel sistema contributivo la durata della vita attiva (il che vale anche per gli uomini) è la prima condizione per l’adeguatezza delle prestazioni. Non a caso, la parificazione dell’età pensionabile (realizzata a tambur battente nel settore pubblico) era compresa tra le raccomandazioni della Bce nella lettera del 5 agosto 2011; non a caso l’Italia è sotto tiro della Ue perché il suo ordinamento pensionistico consente alle donne di andare in pensione anticipata un anno prima degli uomini.

Poi c’è un discorso più generale fa fare: l’Ape, lo abbiamo riconosciuto, è stato (insieme con il Rita) un tentativo di impedire lo sfondamento sull’età pensionabile. Ma se dovesse continuare lo sfarinamento; se, ad ogni legge di bilancio, si dovessero aggiungere nuove categorie tra gli aventi diritto o rifilare il numero degli anni di versamenti o quant’altro escogitando (ciò mentre continua e si esaspera l’attacco al caposaldo dell’età pensionabile) si rafforzerebbe la tendenza che fino ad ora ha subito la riforma Fornero: quella di essere un vestito di Arlecchino intessuto di deroghe, eccezioni e rinvii, piuttosto che una normativa effettivamente applicata.

Quanto alle proposte riguardanti i giovani, l’idea sarebbe quella di usare il bisturi intorno a quanto prevede la riforma Fornero per coloro a cui è applicato interamente il sistema contributivo (perché hanno iniziato a lavorare a partire dal 1° gennaio 1996). Attualmente le regole stabiliscono che questi soggetti potranno andare in quiescenza di vecchiaia all’età di volta in volta prevista purché il loro assegno sia almeno pari a 1,5 volte l’importo dell’assegno sociale (ovvero a circa 750 euro mensili lordi). La proposta in discussione riguarda una riduzione del parametro ad 1,2 e un miglioramento della possibilità di cumulo tra pensione e assegno sociale (dal 33% al 50%). Pertanto i 600-700 euro di pensione di cui si parla non sarebbero una garanzia (come è oggi l’integrazione della pensione a calcolo fino al minimo legale), ma il risultato concreto, ipotizzabile in conseguenza di tali modifiche.

Per quanto riguarda invece la pensione anticipata di questi lavoratori, le norme vigenti consentono di ritirarsi a 63 anni (più l’adeguamento) facendo valere 20 anni di contributi, purché la pensione percepita sia almeno pari a 2,8 volte l’ammontare dell’assegno sociale (1.500 euro lordi mensili circa). I sindacati – abbacinati da un’età pensionabile più bassa – puntano le loro carte su di una consistente riduzione del parametro, senza rendersi conto che in tal modo maltrattano un altro obiettivo – oltre alla sostenibilità – che dovrebbe essere garantito da un sistema pensionistico equilibrato: l’adeguatezza dei trattamenti.

Al di là delle dichiarazioni laconiche ed un po’ esoteriche del ministro Giuliano Poletti, Marco Leonardi – che fa parte del pool di Palazzo Chigi che ha in mano il pallino – ha assicurato che c’è ancora tempo per riflettere. Non avrebbe molto senso, infatti, contabilizzare adesso un’operazione destinata ad andare a regime tra una ventina di anni, almeno. Del resto, da quanto è emerso dalle parole dei leader confederali, le organizzazioni sindacali sono più interessate a bloccare il collegamento automatico all’attesa di vita per i prossimi pensionati, piuttosto che trovare soluzioni per i giovani, che saranno pensionati in un domani ancora lontano. Anche in questa occasione l’Italia si rivela un Paese innamorato delle pensioni al punto da preoccuparsi di tutelare i giovani di oggi per quando saranno anziani, anziché consentire loro di provvedere a se stessi lavorando.

Fonte: Politically (in)Correct

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