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La pasta italiana sfida i dazi di Trump: “E’ impensabile che gli americani rinuncino alla pasta”: parla Vincenzo Divella

Imagoeconomica

Delle 23 mila merci italiane esposte ai dazi americani ce n’è una, la pasta, che potrebbe riservare più di una sorpresa al presidente Usa, Donald Trump. Perché, secondo uno dei principali e popolari produttori italiani, Divella, sul mercato dal 1890, anche i dazi più alti potrebbero essere assorbiti senza grave danno dalle imprese, mentre i consumatori a stelle e strisce pagherebbero un costo elevatissimo, a meno che non smettano del tutto di mangiare pasta. Un costo che la Coldiretti ha anche quantificato, 170 milioni di euro in più solo per la filiera della pasta, mentre l’intero settore agroalimentare con i dazi al 25%, peserebbe sul consumatore americano fino a 2 miliardi di euro. 

Prima di dare la parola all’imprenditore Vincenzo Divella, amministratore delegato dell’azienda, qualche altro numero sull’argomento. Secondo i dati Ipo, International Pasta Organisation, nel 2024 il consumo di pasta pro capite negli Stati Uniti è stato di circa 8,8 chilogrammi all’anno, (gli italiani ne consumano 23), una domanda in crescita, con un incremento del giro di affari, nei primi quattro mesi del ’24, del più 6,6%. Sempre nel 2024 l’Italia ha esportato negli Stati Uniti pasta per un valore di 805 milioni di euro, rappresentando il 12% del totale dell’export agroalimentare del Paese verso i paesi transatlantici.

L’Italia, si sa, è prima al mondo per la produzione di pasta con 3,7 milioni di tonnellate, pari al 22,3% del totale. Un primato confermato dalla leadership italiana nella produzione di grano duro, 3,8 milioni tonnellate, cioè il 12% del totale mondiale, alle spalle solo del Canada che ne produce il 15%.  La Puglia, la regione dove ha sede il pastificio Divella, (300 milioni di fatturato, 320 dipendenti), è la prima regione per la produzione del grano duro, 23,2% del totale nazionale; seguono la Campania con il 19% e l’Emilia Romagna, con il 18%.  Complessivamente i pastifici del Mezzogiorno, tra Puglia, Campania e Sicilia, sono i più grandi d’Italia, con 115 milioni di fatturato medio.  

Vincenzo Divella, quanto le fanno paura i dazi di Trump?

“Abbiamo visto quanto danno hanno fatto gli annunci di gennaio con le Borse che sono crollate e l’allarme generale ovunque nelle piazze economiche, una tempesta che alla fine ha costretto il Presidente Trump a fare marcia indietro. Devo dire tuttavia che a noi imprenditori della pasta i dazi non ci spaventano più di tanto. Per due motivi: intanto per la natura del nostro prodotto, poco costoso e molto popolare. Dubito che gli americani (e nel mondo) smetteranno di mangiare la pasta. E in secondo luogo anche se i dazi fossero al massimo, 25% o anche 30%,  l’aumento alla fine sarebbe solo di pochi centesimi. Senza contare che abbiamo preso già le misure. Infatti, in attesa delle decisioni definitive di Trump, noi ci siamo accordati con l’importatore americano dividendoci il peso del dazio del 10%, accollandocelo metà per uno. In conclusione non è un danno enorme per nessuno né per noi né per i consumatori”.

Cosa diversa per gli altri prodotti della filiera italiana

“Senz’altro più grave la situazione per il resto del settore agroalimentare, tipo spumante, olio extra vergine di oliva, per i quali i rischi sono alti perché sono prodotti più ricchi del nostro e perché magari possono essere sostituiti o eliminati . Ma non penso però che possa soffrire moltissimo la moda del made in Italy per esempio, perché chi vestiva  Armani prima continuerà a farlo, magari comprando un abito in meno, ma non eliminando del tutto il prodotto”. 

Quanto conta per Divella il mercato americano?

“Non moltissimo. Noi esportiamo soprattutto in Germania, che resta per noi il mercato più grande; poi viene la Francia. Ma pensi che abbiamo sfondato in Giappone dove hanno perfino imparato a mangiare la pasta al dente mentre siamo addirittura leader in Sud Africa. E ora abbiamo aperto un nuovo mercato, pensi un po’, in Nepal.  Insomma il 40% della nostra pasta, circa  4 mila quintali al giorno, va all’estero”. 

Mi pare di capire che per lei non ci sia nessun problema

“Al contrario ce ne sono eccome. Non volevo dire che la situazione non sia preoccupante e che non ci siano conseguenze alla politica del Presidente americano. Perché questa strada può portare all’inflazione e poi alla recessione con fabbriche che si ridimensionano, mettono in cassa integrazione o come minimo non fanno più investimenti.  Ma se devo essere sincero più dei dazi in questo momento a me preoccupa il corso del dollaro. La variazione mensile sull’euro dà un aumento del 2,38% e nell’ultimo anno è aumentato del 4,68%. Questo vuol dire che quello importo lo pago di meno ma quello che esporto costa sempre di più. Per restare al grano, essendo sceso il prezzo del petrolio, il carico di una nave oggi viene a costare ai produttori meno di prima e diventa molto più competitivo farlo arrivare dal Canada o dall’Australia. La conclusione è che il grano pugliese perde terreno nell’export, mentre aumenta l’import del frumento canadese, cresciuto quest’anno del 68%. Le conseguenze sociali sono forti  e le abbiamo visto anche negli ultimi giorni, con la rivolta delle associazioni come la Coldiretti che hanno organizzato un blitz al porto di Manfredonia con gommoni e motoscafi contro l’arrivo di  grano proveniente dal Canada. E i dazi in questo caso possono fare ancora più danni perché il conflitto Usa-Canada spingerà quest’ultimo Paese a spingere a esportare ancora di più su altri mercati, fra cui il nostro”.   

Torniamo a Trump: come se lo spiega questo modo di fare del presidente americano?

“Io devo dire anche che non ritengo Trump uno fuori di testa, un pazzo, come pensano in molti; credo al contrario che stia facendo un ragionamento fine, magari da mercante, ma che ha del senso. Insomma come al bazar si spara un prezzo altissimo (i dazi alle stelle di cui sappiamo) per poi scendere a quelli più miti, anche lui sta usando questa tattica. Ma alla fine della corsa comunque avrà portato nelle sue casse più di quello che aveva all’inizio della contrattazione. Come si fa a chiamarlo pazzo?”

Eppure pochi hanno il suo sangue freddo…

“Intendiamoci non sto dicendo che fa bene, dico che ha della logica. Anche io auspico che l’America torni a essere quello che era prima, un faro di democrazia per i mercati e per tutto il resto. Il danno maggiore in questo momento è l’ambiguità, le aziende non sanno come comportarsi: investo o non investo? Produco di più o di meno? E tutto si blocca. E questo vuol dire una cosa molto semplice, che si blocca il futuro”.

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Categories: Economia e Imprese