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Italia, quattro riforme per liberare l’economia dalla zavorra

FIRSTonline

Il nuovo approccio alla politica dell’Unione Europea della Commissione guidata da Ursula Von der Leyen – priorità di lungo periodo e volontà di rispondere alla crisi imprevista con misure di sostegno inconcepibili fino a pochi mesi fa – ha cambiato anche il discorso economico in Italia. Finalmente i temi per la ripartenza della nostra economia ritrovano spazio tra i realisti più cinici, spuntano sulle labbra dei politici e negli articoli di giornale insieme alle risposte immediate agli effetti economici dell’epidemia o, nei casi peggiori, ai soliti slogan elettorali. Il cambiamento è dovuto all’occasione irripetibile del piano di ripresa europeo, come dice Gentiloni, ricordando che di Piano Marshall nel dopoguerra ce n’è stato uno solo. È la nostra occasione per togliere le strozzature alla crescita del paese e convergere sugli obiettivi europei per il futuro.

In questo quadro si colloca il Piano presentato dalla squadra di Colao, che ha raccolto tutte o quasi le migliori proposte avanzate da un paio di decenni su come far ripartire la crescita in Italia. Sicuramente condivisibili i tre “assi di rafforzamento per la trasformazione del Paese”: digitalizzazione e innovazione, parità di genere e inclusione e transizione verde. Sicuramente apprezzabili gran parte delle 102 misure proposte. Proprio per la sua ampiezza offre il fianco a chi rimprovera mancanza di priorità e di strumenti.

Il presidente Mattarella ha estrapolato dalla folla delle misure la più importante: aumentare la crescita dimensionale delle imprese. Questa è la misura necessaria all’innovazione e alla crescita potenziale del paese. Le piccole imprese non solo non possono fare R&S, ma non adottano nemmeno le tecnologie già disponibili. Il risultato è l’infima produttività di una gran massa d’imprese che porta in basso l’aggregato e contribuisce alla divergenza dell’Italia dagli altri grandi paesi.

LE 4 ZAVORRE DELL’ECONOMIA ITALIANA

La mancata diffusione dell’innovazione, del digitale, è una delle quattro strozzature alla crescita della produttività in Italia da un quarto di secolo e quindi alla crescita tout court dell’economia e degli standards di vita.

Aderire alla misura-faro enunciata dal Presidente vuol dire non contraddirla con sussidi a pioggia: sostenere il lavoro e le persone è diverso dal sostegno a imprese zombie, a evasori fiscali, o semplicemente a chi assorbe risorse che potrebbero spostarsi su nuove imprese con possibilità di crescita, di creazione di posti di lavoro di qualità e ben remunerati. La massa di piccole imprese vitali deve invece essere protetta dagli effetti del Covid a condizione però di fusioni, di adozione delle tecnologie digitali, di accumulo di dati, softwares, ossia del capitale intangibile necessario all’economia digitale. Ovvero a condizioni che le facciano crescere anche contro i loro desideri: incentivi all’aumento dimensionale esistono infatti da tempo e non hanno funzionato. A parte rarissime imprese alla frontiera che sono praticamente monopoliste nella loro nicchia, le piccole imprese sono e continueranno ad essere spazzate via dal mercato in questa transizione all’economia digitale. I vantaggi, discutibili, che prevenivano questa evoluzione, non tanto il controllo familiare che non ha impedito la formazione di grandi imprese in tutto il mondo, quanto il management familiare, le rigidità del mercato del lavoro e incentivi fiscali distorsivi possono essere oggi più che compensate da sussidi e garanzie dello Stato. Inoltre, la fibra ad alta velocità dovrà essere disponibile per tutti. Questa è un’infrastruttura senza la quale si mette a rischio il nostro presente (es telemedicina, telelavoro) e il nostro futuro.

L’altra strozzatura alla produttività e la crescita è la formazione, non solo scuola né solo università e ricerca, ma anche aggiornamento dei lavoratori, giovani o adulti che siano, per permettere l’utilizzo delle nuove tecnologie. Le altre due strozzature che hanno fatto perdere posizioni all’Italia tra i grandi paesi sono la Pubblica Amministrazione e la giustizia con la loro inefficienza. Queste sono le riforme strutturali indispensabili per negoziare il finanziamento dei nostri progetti in Europa. La PA, l’abbiamo sperimentato nel lockdown, è lo strumento per ogni sussidio, incentivo, paracadute…Davvero qualcuno crede che basti sostituire il presidente dell’INPS perché questo funzioni? Cominciano ad esserci proposte dettagliate per superare queste ultime due strozzature e ne riparleremo.

I FONDI E IL PROBLEMA DEI TEMPI

Per nostra fortuna, i fondi disponibili nel 2020 non richiedono le più difficili riforme strutturali ex-ante. Di immediatamente disponibili abbiamo solo i 35,8 miliardi di euro del Mes per le spese sanitarie. I fondi per il meccanismo Sure di assicurazione contro la disoccupazione (circa 8 miliardi calcolati per l’Italia) cominceranno ad essere raccolti dalla CE non prima di settembre e i fondi di Bei per prestiti e garanzie (9 miliardi di euro secondo le stime di LC-Macro Advisors) richiedono, direttamente o indirettamente, progetti d’investimento che non sono pronti.

Dei fondi più importanti, il Recovery and Resilience Facility, (RRF o Next Generation EU) se confermato, sarà disponibile per circa 12 miliardi per l’Italia nel 2021, cifra quasi equivalente al maggior contributo dell’Italia al bilancio EU. La maggior parte dei fondi sarà disponibile tra il 2022 e 2025. Si tratta, per nostra fortuna, di fondi per investimenti e dovremo avere dei progetti seri pronti al più presto per evitare che facciano la fine abituale dei fondi di coesione e che l’Italia continui a ristagnare, come mostrato dal grafico sopra, invece di ripartire. Anche la Next generation Italy si deciderà con questo piano: dobbiamo cominciare subito ad articolarlo con gli strumenti appropriati di governance, implementazione, monitoring, correzione.

IL CROLLO DEI CONSUMI

Arriveremo vivi alla presentazione del Piano per il futuro? Dobbiamo chiedercelo vista la caduta della produzione e la scarsa domanda da parte dei consumatori anche dopo la riapertura delle attività. Il crollo dei consumi nei servizi è una caratteristica di questa crisi, sanitaria all’origine, non finanziaria, non manifatturiera. Alla bassa domanda contribuisce la limitazione dei contatti sociali: perché comprare il vestito/accessorio alla moda se frequentare il negozio è un rischio e non possiamo mostrarlo alle amiche? Ma pesa ancor più l’incertezza nel futuro epidemiologico ed economico che fa accumulare risparmi piuttosto che consumare. Soprattutto quando l’inflazione è lontana, come mostra la curva dei rendimenti invertita.

Dovremo verificare i dati a fine giugno, ma dovremmo essere pronti a prendere misure di sostegno diretto al consumo: niente voucher per monopattino o agenzie di viaggi per soddisfare gruppetti d’interessi e che necessitano l’efficienza distributiva della PA che non c’è. Prendiamo esempio da chi è in testa ai paesi europei (sempre meglio copiare dal primo della classe) la Germania. Riduciamo anche noi l’IVA al 16% fino al 31 dicembre 2020.

Il dipartimento delle Finanze strillerà per le mancate entrate calcolate in confronto allo stesso periodo del 2019. Ma il post Covid non sarà come l’anno precedente, le perdite di gettito ben più limitate e in ogni caso non è il gettito fiscale l’obiettivo di politica economica ora. Inoltre, una misura uguale per tutti facilita la raccolta, al contrario della miriade di esenzioni mirate che esistono oggi. In ogni caso, il ministero dell’economia deve occuparsi anche del contesto macroeconomico e ovviare alla carenza di domanda di consumi con le misure di stimolo appropriate.

È essenziale la chiarezza e determinatezza su inizio e soprattutto fine di questa misura di stimolo ai consumi. La garanzia della chiusura a fine 2020 di questa misura temporanea è la definizione dei progetti per utilizzare i fondi Mes, Sure, Bei e da gennaio 2021 dei progetti d’investimento richiesti da Next Generation EU e il bilancio europeo rinforzato che prenderanno il testimone della crescita della produzione e dell’occupazione.

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