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Industria, Unicredit-Prometeia: filiere a rischio

Rispetto ai livelli pre-crisi il gap da recuperare per l’industria corrisponde ad almeno 70 miliardi di fatturato, 40 mila imprese attive e 1,3 milioni di occupati in meno, un segnale di come il sistema Italia fatichi a riportarsi a pieno regime. Sono i numeriche emergono dal Rapporto Industria e Filiere di Unicredit e Prometeia, presentato ieri in un incontro a porte chiuse a Roma e di cui riportiamo i passaggi principali.

Come Achille all’inseguimento della tartaruga, l’industria italiana continua a vivere il suo paradosso; quello di vedere una ripresa sempre più lontana nel tempo, nonostante numerosi punti di forza messi in luce nel corso degli ultimi anni, soprattutto sul fronte del posizionamento internazionale. Dopo un biennio di recupero e nonostante aver superato Francia Germania e Regno Unito per crescita delle esportazioni, il 2012 si è chiuso nuovamente con un arretramento del fatturato complessivo a prezzi correnti, riportando il divario delle filiere industriali analizzate nel rapporto a oltre 5 punti rispetto ai livelli di prima della crisi.

Fra le fasi il gruppo delle lavorazioni intermedie è quello che sconta ancora la maggiore distanza, con oltre 10 punti percentuali, mentre più contenuto il divario delle prime lavorazioni e del sourcing, quest’ultimo sostenuto dalla dinamica dei prezzi delle materie prime nella media degli ultimi cinque anni.  L’eccesso di capacità produttiva accumulato, se esteso nel tempo, rischia infatti di abbassare anche il potenziale di sviluppo, poiché a lungo andare, priva il paese di risorse e competenze necessarie per la crescita.

IL RECUPERO PIENO PASSA PER LA DOMANDA INTERNA

Nelle filiere dell’industria italiana analizzate in questo rapporto la quota di fatturato imputabile a vendite sul mercato interno è in media del 73% con un picco di oltre l’80% nella filiere alimentari, prodotti per le costruzioni e valori intorno al 50% in quelle dell’elettromeccanica e della moda tali da far immaginare che un recupero pieno dei livelli di attività passi necessariamente per una normalizzazione della domanda interna.

Le nuove filiere globali abbracciano nuove tecnologie: la scala perde importanza e i produttori italiani appaiono ben posizionati per trarne un consistente vantaggio competitivo. Dai primi riscontri oggettivi sui primi mesi del 2013, così come dagli indici di fiducia di famiglie e imprese emerge che, anche per l’anno in corso, il circolo vizioso fra l’assenza di mercato, la perdita di capacità produttiva e un clima di sfiducia generalizzato sia destinato a proseguire. Il fatturato delle filiere industriali a fine anno arretrerà di un ulteriore punto percentuale a prezzi correnti. È  un livello che depurato dell’effetto prezzi allunga ulteriormente i tempi di recupero, stimabili ormai a oltre 15 anni dall’inizio della crisi, un orizzonte che, vista l’ampiezza degli intervalli in gioco, emerge ormai più da proiezioni statistiche che da vere e proprie previsioni puntuali.

Quello che in realtà potrà essere lo scenario industriale a 15 anni dalla grande crisi è ancora tutto da definire e in fondo dipenderà dalla scelte o dalle rinunce che le singole imprese e il sistema paese sapranno fare. Lo squilibrio 2013-’15 per fase di filiera fra domanda interna e domanda estera contribuirà per esempio a ridefinire molte catene del valore spostando centri di produzione consumo e lavorazioni intermedie, ma anche modificando la struttura industriale, il grado di concentrazione delle filiere e il loro ruolo nella divisione del lavoro internazionale. Una nuova ondata tecnologica è ormai alle porte e soprattutto alla portata anche delle imprese di ridotte dimensioni come quelle italiane che potranno avvantaggiarsi di questo salto di paradigma dei modelli di produzione.

LA DISTRIBUZIONE COME VOLANO DELL’INTERNAZIONALIZZAZIONE

Un’internazionalizzazione fatta di PMI sconta la necessità di un supporto sul fronte del canale distributivo e logistico. Il basso grado di internazionalizzazione delle insegne nazionali della Gdo così come il ridotto ricorso delle imprese stesse a investimenti diretti esteri finalizzati a rafforzare la presenza commerciale lascia spesso i prodotti italiani in balia di distributori locali; talvolta inaffidabili, spesso con maggior potere contrattuale, generalmente con più referenze e comunque con uno scarso commitment verso il prodotto. Da questo punto di vista le imprese italiane pagano un differenziale rispetto ai concorrenti europei dove esistono grandi catene distributive già fortemente internazionalizzate e ben posizionante anche nei nuovi mercati. Il fatturato realizzato all’estero da imprese della distribuzione arriva ad appena il 3% in Italia (peraltro tutto confinato all’interno di paesi europei), mentre supera il 15% in Germania ed è vicino al 10% in Francia.

NEL 2013 PEGGIORA LA COMPETITIVITÀ DI TUTTE LE FILIERE
SI IMPOVERISCE LA MODA, TIENE L’AUTOMOTIVE

La competitività sarà un fattore chiave per intercettare la domanda estera dal momento che le imprese si troveranno su mercati certamente più dinamici, ma per questo anche più affollati. Dall’analisi di competitività per fase e filiera emerge come la meccanica continui a mostrare il miglior posizionamento fra le filiere.  In generale rispetto allo stesso indice calcolato sul finire del 2012, emerge nell’industria una sostanziale stabilità del ranking delle filiere, anche se sembra peggiore il quadro di sostenibilità finanziaria a causa dell’eccesso di capacità produttiva e tensioni sui tempi di pagamento fra soggetti deboli e soggetti forti lungo le filiere.

Fra le fasi, migliori risultati sul fronte della competitività sostenibile e sulle prospettive di crescita sembrano invece premiare i produttori finali. Emergono in particolare alcune filiere tipiche del made in Italy come alimentare e moda, forti di una presenza qualificata all’estero che si fonda su marchi brevetti e una quota di mercato in crescita in alcuni dei mercati più strategici come quello cinese. Nella moda tuttavia emerge un progressivo impoverimento degli stadi più a monte, dove tolta la produzione di materiali intermedi di altissima gamma, le attività che precedono i beni finali sono fortemente penalizzate da problemi di produttività e sostenibilità finanziaria che in ultima analisi potrebbero contagiare anche le fasi più virtuose della filiera.

È  un bilancio che può essere esteso ad altre produzioni tipiche del made in Italy come quelle dell’alimentare e dell’arredo dove in un caso i problemi del mondo agricolo, nell’altro il venir meno del patrimonio artigiano collegato rischiano di ripercuotersi sulla competitività di tutta la filiera. Diverso il caso degli elettrodomestici e dell’automotive dove il cosiddetto indotto ha saputo negli anni diversificare la propria clientela e oggi, nonostante risultati poco brillanti da parte dei produttori finali, le imprese delle lavorazioni intermedie mostrano buoni indici di competitività.

SI AMPLIA LA DISPERSIONE DEI RISULTATI

L’importanza di scegliere la direzione ottimale emerge dal grado di dispersione dei risultati all’interno delle filiere. Confrontando la competitività media di filiera e il 20% delle imprese migliori emerge come proprio l’automotive e gli elettrodomestici siano le filiere dove i differenziali sono più alti. Più in generale da un confronto dettagliato dell’indice emerge come pur all’interno della stessa filiera e della stessa fase siano possibili risultati fortemente differenziati. È  un indicatore che è tanto più alto, quanto complesso è lo scenario che le imprese hanno di fronte perché in ultima analisi esprime il premio riconosciuto a quanti fanno scelte più coraggiose. Lo sviluppo della dimensione internazionale è una di queste: un’esigenza che riguarderà da un lato veri e propri nuovi esportatori, ma dall’altro chiederà a molte filiere di rafforzare il gioco di squadra per permettere anche a soggetti più a monte nella catena del valore di beneficiare della crescita estera.

È NECESSARIA UNA VISIONE EUROPEA DELLE FILIERE

Un’accezione europea della filiera è probabilmente la giusta taglia per immaginare un confronto su scala internazionale. Davanti infatti a player che si muovono e investono su scala regionale, si pensi per esempio alla penetrazione cinese in
Africa o agli investimenti americani sullo stesso mercato cinese, difficilmente la dimensione ottimale delle filiere può limitarsi ai confini nazionali. Se l’Europa ha poco da offrire in termini di opportunità legate alla crescita del mercato interno, migliore, ma non dissimile a quanto descritto per quello domestico italiano, lo stimolo dell’Europa alle filiere potrà allora avvenire in maniera indiretta, colmando per esempio quelle lacune legate alla dimensione e all’offerta di servizi che spesso limitano il potenziale del made in Italy nel mondo.

La diversità dei modelli di specializzazione fra i paesi se valorizzata all’interno di un quadro di filiere Europee può generare un effetto moltiplicatore sullo scenario; cogliendo e valorizzando per esempio le sinergie fra i grandi produttori di beni intermedi del Nord Europa e i piccoli assemblatori meccanici del Sud, fra la qualità dell’agroalimentare tradizionale del mediterraneo e appunto il potenziale veicolo della grande distribuzione francese o gli operatori logistici tedeschi.

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