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Indagine Mediobanca-R&S sull’industria italiana: i privati corrono, i pubblici arrancano

Si allarga il divario tra la performance dei big dell’industria privata e quelli pubblici: i primi mostrano resilienza e pure vivacità di fronte alle complessità e difficoltà del contesto, puntando soprattutto sull’estero, i secondi arretrano, optando anche per dismissioni che ne sminuiscono fatturato e occupazione oltre alla dimensione internazionale. Il privato batte nettamente il pubblico anche per redditività, addirittura lo doppia, ma i colossi di Stato restano inequivocabilmente al top per il monte-dividendi. La fotografia scattata dall’edizione 2016 dell’Annuario R&S curato dall’ufficio studi di Mediobanca approfondisce i motivi della dicotomia tra pubblico e privato, esaminando i 41 maggiori gruppi industriali della Penisola su base consolidata, oltre a cinque holding non quotate. Tappa dopo tappa in una corsa virtuale, il privato allunga il vantaggio sul pubblico, appesantito – va detto – dall’handicap di partenza della prevalente presenza nel settore energetico, messo a dura prova negli ultimi anni dal calo del greggio. Per tutti vale, invece, la zavorra di una crescita economica anemica. Nel 2015 – indica R&S Mediobanca – il fatturato dell’industria italiana è calato del 5% sul 2014, con -4,2% sul mercato domestico e -5,4% all’estero. Senza le dismissioni pubbliche il calo sarebbe dell’1,1%. Il settore pubblico accusa un arretramento dei ricavi del 16,1% ‘tel quel’ e del -9,7% senza dismissioni, con una netta contrazione nel comparto energetico con -19,8% e -13,1% rispettivamente.

I big privati, invece, mettono a segno una significativa crescita (+7,5% su basi grezze e +7,9% omogeneo), favorita dall’estero (+10,2% contro un calo in Italia del 2,3% grezzo e dello 0,6% omogeneo). Brilla, in particolare, lo slancio della manifattura privata, con un aumento dei ricavi del 10,3%, sempre sulla spinta dall’estero (+11% contro il +1,8% domestico). I Top-seller del 2015 vanno cercati nella moda, nella meccanica e nelle grandi opere. Al primo posto Moncler (+26,8%), seguita da Brembo (+16,2%), Luxottica (+15,5%), Exor (+13,5%) e Salini Impregilo (+11,1%). Il primo gruppo pubblico della graduatoria, al sesto posto, sono le Poste (+10,1%). Di rilievo, la performance di De Agostini che grazie all’acquisizione dell’americana Igt, balza del 16%. In coda Eni, con un calo del fatturato del 27,3% su basi omogenee e del 38,3% ‘tel quel’. Pesano le cessioni di Saipem e anche – ai fini contabili – di Versalis. L’effetto dismissioni si vede anche nella perdita di terreno internazionale dei big pubblici, con una quota di fatturato estero in calo dal 54,4% al 48,4% del totale. La manifattura privata, già su livelli di proiezione internazionale molto alti nel 2014 (91,1% delle vendite), lo scorso anno èriuscita ad accelerare ancora (91,8%). Principali destinazioni nel manifatturiero sono le Americhe (53,8%) e in Europa (30,9%), dove nell’insieme dunque si vendono 85 euro ogni 100. Nel Vecchio Continente si fa pero’ sempre piu’ leggero il peso dell’Italia (8,8% dal 9,8%). Il Nord America e’ il mercato che ha corso di più, con un aumento medio per il fatturato del manifatturiero del 23,1%, l’Europa si accontenta del 3,3%, il Sud America flette del 17% e il resto del mondo (quindi Asia inclusa) cede il 3,3%. Il podio dei maggiori esportatori 2015 premia Luxottica (96,6% del fatturato all’estero), Pirelli (94%), Exor (93,2%), seguiti da Danieli (92,8%) e Prada (88,9%). Il primo gruppo pubblico è Fincantieri (84,9%).

Anche nell’occupazione l’industria pubblica e quella privata prendono direzioni opposte. Complice l’effetto dismissioni (da registrare anche la cessione del settore trasporti da Leonardo-Finmeccanica), i big pubblici segnano un calo dei dipendenti di quasi il 15%, per il 37,9% all’estero e il 4,3% in Italia. La manifattura privata accresce invece l’occupazione del 9,7% ed è un aumento tutto all’estero (+12%), mentre in Italia è invariata (-0,2%). Anche in termini di forza lavoro e’ evidente la minore presenza internazionale dei gruppi pubblici, visto che la quota di dipendenti esteri scende dal 30,9% al 22,5% del totale. Nel privato, invece, si sale dal 55,8% al 57,4% e la manifattura privata arriva al 75,5% al 77,6%. E’ però la redditività a marcare sempre più nell’industria la distanza tra pubblico e privato: se già nel 2011 la redditività industriale dei gruppi privati era superiore a quella del pubblico (13,8% contro 9,7%), nel 2015 la prima quasi doppia la seconda: i big privati mettono a segno un Roi del 12,4%, mentre i pubblici sono al 6,8%. Ancora una volta eccelle la manifattura privata con il 14,4%. Per entrambi si tratta di un trend in calo che risente del periodo difficile, ma anche in questo caso il divario è aumentato con il passare del tempo: nel 2011 il Roi era al 13,8% per i privati e al 9,7% per i pubblici e nel 2014 del 12,8% e del 7,4% rispettivamente. Passando alla generazione di ricchezza: nel comparto pubblico è quasi nulla (0,6% del capitale investito), mentre nel manifatturiero privato e’ sette volte tanto (4,2%). Moncler, Ferragamo, Brembo, Recordati, De’ Longhi, Luxottica e Prysmian si distinguono sia per la redditività operativa (roi), sia la redditività netta (roe). L’andatura dove il pubblico stacca nettamente il privato e’ quella dei dividendi, del resto sempre ‘vitali’ per l’azionista statale. Dal 2011 al 2015 i big pubblici hanno versato cedole per un totale di 12,8 miliardi contro i 6,9 miliardi dei privati. Eni è senza rivali con 5,6 miliardi, seguita da Enel (2,3 miliardi), Poste (1,6 mld) e Snam (1,3 mld). Nello stesso periodo le aziende private che hanno dato più soddisfazioni ai soci in termini di cedola sono Luxottica (1,2 mld) e Prada (1 mld). Le imprese pubbliche, comunque, guidano la classifica anche dei dividend yield medi nel 2011-2015: Iren e Snam (6,5%), Eni (6,4%), Terna (6,2%), Hera (6%) e Acea (5,7%).

A un dipendente medio dell’industria servono 31 anni di lavoro per guadagnare tanto quanto il suo a.d. in un anno. Se poi il ceo accumula qualche altra carica, come quella di Dg, si può arrivare a 43 anni. Insomma, una vita intera di lavoro. Questi i calcoli dell’edizione 2016 dell’Annuario R&S realizzato dall’ufficio studio di Mediobanca che prende in esame i 41 maggiori gruppi industriali privati e pubblici. Sarà forse di parziale consolazione il fatto che lo scorso anno gli anni necessari per eguagliare la retribuzione dell’a.d. erano 36. Il compenso mediano nell’edizione di quest’anno per un amministratore delegato risulta di 1,56 milioni di euro, per un a.d. che è anche dg si sale a 2,38 milioni. Passando alla governance, l’Annuario rileva che l’età media dei componenti dei Cda nelle società industriali è 58 anni, invariata sul 2014. In aumento la quota rosa, salita al 26% al 30%. Nei board dell società pubbliche la presenza femminile è maggiore (35%) e l’età media più bassa (55 anni). Le posizioni al top restano pero’ un appannaggio maschile, visto che la quota femminile si ferma al 12%. Acea ha il cda più giovane (47 anni), Ferragamo il più attempato (66,5 anni) e Edison quello più rosa (56%).

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