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Il terrorismo islamico e l’insostituibile ruolo dell’Europa di fronte alla guerra globale

I sanguinosi attacchi terroristici di Parigi confermano che siamo in una fase evolutiva di una guerra globale che si svolge in spazi transnazionali, con gradi differenti di intensità, ed ha il suo fulcro nello scontro feroce fra gruppi e fazioni delle classi dominanti  del mondo islamico per il controllo del potere e per l’egemonia. Questi ceti dominanti fondano la legittimazione delle loro pretese e la loro identità sulla cultura e sulla religione islamica in cui si identificano i ceti subordinati che ne costituiscono la base sociale. 

La religione, il tradizionalismo, il nazionalismo, il razzismo, l’imperialismo sono stati i principali ingredienti che hanno costituito l’amalgama su cui si sono fondati  gli instabili equilibri politici e sociali che hanno fatto seguito alla fine del colonialismo dopo la seconda guerra mondiale.

Il processo di globalizzazione ha determinato la dissoluzione di questa miscela e la liberazione delle sue componenti. Al Qaeda è stato il primo prodotto di questo processo che, anche a causa dei gravi errori degli Stati Uniti ( con la complicità o l’assenza dell’Europa) si è consolidato e ramificato, dopo l’invasione dell’Iraq, con la guerra civile in Siria e la dissoluzione della Libia. Si sono così aperti spazi politici transnazionali ingovernabili in cui hanno potuto insidiarsi l’ISIS, i fondamentalisti libici, Boko Haram, con la probabilità di una proliferazione ulteriore seguendo le faglie interstatali delle grandi correnti religiose sciite e sunnite che intersecano comunità etniche, tribali e religiose finora confinate ai margini degli Stati nazionali e della storia.

La debolezza intrinseca di paesi costituiti artificialmente dal colonialismo ha impedito, salvo alcuni casi come la Turchia e, in parte, l’Egitto, di costituire canali di consenso su una base nazionale e non etnica, religiosa o tribale. Da qui il fallimento del panarabismo e del socialismo arabo. La globalizzazione con i suoi effetti sconvolgenti sulle strutture economiche e sociali nazionali e locali, sui sistemi di comunicazione, sui movimenti delle popolazioni, attraverso l’urbanizzazione e l’emigrazione e la caduta del bipolarismo politico ed ideologico ha messo in crisi i regimi dittatoriali e tradizionalisti ampiamente prevalenti nei paesi del mondo in via di sviluppo.

Questo distacco sempre più abissale fra le classi dominanti al potere e i nuovi ceti sociali che cercano di intercettare e rappresentare il disagio e la rabbia delle classi popolari, soprattutto urbane, è alle radici della primavera araba. Il suo sostanziale fallimento insegna che è estremamente facile adottare le più avanzate tecnologie dell’informazione e della comunicazione, ma è assai più arduo introdurre i principi, le istituzioni e la cultura della delle società liberali e democratiche occidentali. L’abbiamo visto in Iraq, Afganistan, Libia e lo verifichiamo in moltissimi paesi africani e in Cina, ma anche in Russia ed in altri paesi dell’ex impero sovietico.

D’altronde anche il processo di trasformazione liberale e democratica dei paesi dell’Est europeo, tuttora insidiato in un paese come l’Ungheria e traballante in altri, non avrebbe avuto successo senza l’esistenza dell’UE: non a caso il bersaglio principale dei movimenti politici nazionalisti, razzisti e xenofobi è appunto l’unita politica dell’Europa. La guerra globale in corso non conosce frontiere, non è uno scontro fra nazioni né tanto meno fra civiltà, ma una lotta per il potere politico, il controllo delle risorse economiche strategiche, e dei mercati finanziari fra classi dirigenti. In questa competizione globale lo scontro per il potere nel mondo islamico è solo uno dei punti critici, potenzialmente esplosivi come il latente conflitto fra Cina e Giappone e Stati Uniti in Asia e la questione Ucraina che ripropone il problema del ruolo della Russia nel concerto internazionale e dei suoi rapporti con l’Europa.

In questo contesto l’Europa è già campo di battaglia e ha perciò un bisogno impellente di consolidare la sua identità e il suo ruolo politico specifico che si fonda su due pilastri: la difesa strenua, anche militare se del caso, dei valori universali dei diritti e delle libertà dell’uomo e della democrazia e la costruzione di un sistema di relazioni internazionali che poggi i suoi equilibri sulla negoziazione riconoscendo un ruolo propositivo anche a quei paesi, come l’Iran, la Cina, la Russia, con cui esistono situazioni conflittuali reali o potenziali e parametri politici divergenti da quelli su cui si fonda la UE. Siamo pertanto di fronte ad un pericolo ad un’opportunità: il pericolo è la periferizzazione dell’Europa e un processo di degradazione economica, sociale e culturale, l’opportunità è quella di accelerare la spinta verso l’integrazione politica anche a costo di navigare a due velocità.

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