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Governo, contratto di programma: strafalcioni à gogo

Imagoeconomica

Scorrendo le pagine del “contratto” di programma elaborato da Lega e Cinque Stelle per il nuovo governo ci si imbatte in proposte che denotano, da parte degli sherpa giallo-verdi, una profonda ignoranza della legislazione vigente, tanto da volerla riscrivere. Il caso più clamoroso riguarda l’obiettivo di assicurare “sgravi contributivi per le imprese che mantengono al lavoro le madri dopo la nascita dei figli”. Ma i ragazzotti che si accingono al “cambiamento” conoscono le tutele previste ed operanti della maternità, anche per quanto riguarda la disciplina del licenziamento? Sanno che la relativa contribuzione è in generale figurativa? Sono consapevoli del fatto che – sia pure con una procedura macchinosa – anche le dimissioni in bianco sono contrastate? Sembra a loro normale premiare un’azienda che non licenzia una donna dopo la nascita di un figlio, mentre la legge stabilisce che la stessa venga sanzionata addirittura con la nullità del licenziamento?

Passiamo ora ad uno dei fiori all’occhiello del contratto: il reddito di cittadinanza. Che sia una misura che si avventura nel terreno minato dell’inoccupazione (e nell’integrazione di un reddito inferiore a 780 euro mensili) sembra pacifico. Si parla, tuttavia, di “reinserimento” nel mondo del lavoro: un intervento, quindi, contro la disoccupazione. E come la mettiamo con la Naspi, ammesso e non concesso che questi sappiano che esiste? Non hanno neanche preso in considerazione il coordinamento – almeno sul piano delle coperture – tra il nuovo istituto e quelli previgenti.

È curiosa poi la previsione di investire 2 miliardi sui Centri per l’impiego senza spiegare a che cosa dovrebbero servire queste risorse: ad assumere nuovo personale? A tinteggiare le sedi? È singolare buttare lì una somma tanto per dire (per fare si vedrà).

Per quanto riguarda lo stop alla riforma delle pensioni c.d. Fornero, abbiamo già avuto modo di esprimere le nostre preoccupazioni. Ci limitiamo soltanto a riprodurre una scheda (presa da Tabula) che dà un’indicazione dei possibili oneri da finanziare a seconda di quali saranno i criteri adottati (molto importante, a proposito dei costi, sarà l’introduzione o meno di un’età minima per poter procedere al pensionamento anticipato).

SCHEDA PENSIONI D’ANZIANITÀ

Stima sul possibile impatto finanziario di un intervento di modifica della Legge Fornero limitatamente al pensionamento di anzianità.

Le ipotesi si focalizzano sulle pensioni di anzianità e cioè quelle pensioni alle quali si accede con un minimo di contributi accreditati indipendentemente dall’età. Nel 2017 sono state liquidate dall’Inps nel solo settore privato circa 290 mila nuove pensioni previdenziali dirette. Di queste circa 160 mila sono state di anzianità, con un importo medio mensile di quasi 2.000 euro e i nuovi pensionati di anzianità avevano in media 61 anni. Le pensioni di anzianità riguardano sostanzialmente gli uomini che infatti sono ben il 71% tra i pensionati di anzianità. Le donne sono maggiormente presenti nel pensionamento di vecchiaia (67 anni nel 2019 e 67 anni e 3 mesi nel 2022).

Stime su differenti ipotesi di intervento di modifica

SPESA NEL 2019 (in miliardi)

  1. A) Quota 100 (somma di contributi ed età):11,5
  2. B) Quota 100 o 41 anni di contributi:12,3
  3. C) Quota 100 con un’età minima di 62 anni:11,2
  4. D) Requisito 41 anni di contributi con qualsiasi età:9,1
  5. E) Requisito 41 anni di contributi con minimo 62 anni di età:3,7

NOTE
Pensioni interessate dalle ipotesi A, B, e C circa 350- 400 mila
Pensioni interessate dall’ipotesi D circa 140 mila

Con tali interventi in media i pensionati di anzianità accederanno alla pensione con un’età media attorno ai 59 anni (in riduzione rispetto a quella del 2017 di 61 anni) e di ben 8 anni più bassa dell’età di vecchiaia. La copertura da garantire in legge di bilancio per tre anni deve tenere conto che nel terzo anno la spesa sia circa il 20-30% più alta di quella nel primo anno, mentre nel decimo anno la spesa annua potrebbe essere maggiore di quella del 2019 di circa il 50-60%. La spesa cumulata in 10 anni sarebbe per l’ipotesi più bassa attorno ai 50 miliardi e attorno ai 150 miliardi per l’ipotesi più alta.

Ecco poi la sorpresa: lavoratori, cittadini e pensionati uniti nella lotta per il reddito di cittadinanza. Arriva anche la pensione di cittadinanza. Nessun pensionato deve percepire un assegno inferiore a 780 euro mensili. Allegria! Fino ad ora il regime del trattamento minimo è il seguente: in rapporto al reddito dell’individuo o della coppia si procede ad integrare l’importo a calcolo della prestazione (ovvero quanto il soggetto ha maturato attraverso i sui versamenti) fino al minimo legale (intorno ai 500 euro mensili rivalutati ad ogni anno rispetto all’inflazione). Per quanti dispongono solo del reddito da pensione e si trovino in condizioni di particolare difficoltà economica è prevista l’erogazione delle c.d. maggiorazioni sociali che elevano il minimo fino a circa 650 euro. È questo il criterio valevole anche per la pensione di cittadinanza? O siamo alla logica del todos caballeros?

È intuibile la differenza che interverrebbe nelle diverse ipotesi sul piano delle risorse dedicate. La spada della giustizia populista viene calata sulle c.d. pensioni d’oro di importo pari o superiore a 5mila euro mensili. La plebe applaude. A nessuno però è venuto in mente quanto diceva Totò: che è la somma che fa il totale. Ad un “paperone” dorato oggi si applica l’aliquota marginale del 43%.

Con la flat tax questo signore verrà a pagare il 15% (al massimo il 20%) sul proprio reddito. In sostanza, viene penalizzata una prestazione erogata secondo le leggi vigenti a suo tempo, mentre si stravolge il meccanismo di carattere fiscale (il criterio di progressività) predisposto dai Padri costituenti e finalizzato ad una redistribuzione solidale del reddito e della ricchezza.

Fa poi accapponare la pelle che nell’ambito di un programma di governo si prospetti la chiusura dell’Ilva, il blocco della Tav, il ridimensionamento delle opere pubbliche ed infrastrutturali (immaginiamo che non stia tanto bene neppure il gasdotto che dovrebbe attraversare per qualche km la Puglia). Anche in questi casi – che derivano da accordi internazionali e che interessano le economie di tanti Paesi) il nuovo governo si ritiene autorizzato ad infischiarsene, in nome della sovranità nazionale. Sappiamo tutti che il tragitto della TAV avrebbe potuto escludere il nostro Paese. Una volta, però, scelto un percorso, pretendere di interromperlo in un punto significa pregiudicare l’intera opera.

Un’altra clamorosa topica del contratto riguarda la questione del credito. “Il sistema del bail in bancario – sta scritto – ha provocato la destabilizzazione del credito in Italia con conseguenze negative per le famiglie, che si sono viste espropriare i propri risparmi che supponevano essere investiti in attività sicure”. La sicumera è tanto arrogante da non badare persino a quanti, in queste ore, hanno fatto notare, carta canta, che delle regole del bail in, da noi, non è mai divenuta necessaria l’applicazione.

Di conseguenza, i risparmiatori-investitori avrebbero subito i medesimi guai in caso di dissesto delle banche, anche con le normative precedenti, perché è ovvio che le azioni e le obbligazioni subordinate seguano le sorti dell’istituto di credito in difficoltà. Ma l’essere magnanimi con i soldi degli altri rifà capolino: “La platea dei risparmiatori che hanno diritto a un risarcimento, anche parziale, deve essere allargata anche ai piccoli azionisti delle banche oggetto di risoluzione”. Da quando in qua un’azionista deve essere risarcito per le perdite subite dai titoli in suo possesso?

Chiudiamo con il capitolo del Mezzogiorno. È stato fatto notare che, su questo tema fondamentale, il contratto è più che laconico. Certo, chiudere l’Ilva è un grande contributo che si reca al Sud e alla sua vocazione turistica (il settore viene beatificato con l’attribuzione di parametri – l’incidenza sul Pil, l’occupazione, ecc. – palesemente esagerati). Ma è significativa la risposta a questa critica pervenuta dal capo politico dei 5 Stelle: le popolazioni del Mezzogiorno – ha affermato un sorridente Luigi Di Maio – beneficeranno in larga misura del reddito di cittadinanza. Quindi – chiediamo noi – non avranno bisogno di lavorare?

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