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Francesco Marchionne: “Consolidare il debito pubblico: possibilità reale o semplice minaccia?”

 L’idea del consolidamento del debito attraverso un allungamento della sua maturity, proposta da Michele Fratianni su FIRSTonline del 24 ottobre scorso (“E’ ora di consolidare il debito pubblico: ecco i vantaggi dell’allungamento dei titoli di Stato”) è molto interessante. Ci sono tuttavia anche alcuni lati “oscuri” da evidenziare.

Il primo è capire se questa soluzione (rescheduling) sia veramente preferibile al “taglio dei capelli” netto e immediato (repudiation). Il 55% del debito italiano è domestico e costituisce gran parte dell’attivo delle banche. Anche se il regolatore permettesse agli istituti di credito di lasciare i titoli nella categoria holding period del proprio bilancio (a valore nominale), non si potrebbe evitare il giudizio del mercato: il prezzo dei titoli di stato nel mercato secondario crollerebbe riducendo di conseguenza il valore dell’attivo e, quindi, dell’equity della banca. La capitalizzazione delle banche è sufficiente ad assorbire lo shock o gli investitori inizieranno a dubitare della loro reale solvibilità? L’allungamento della maturity del debito, infatti, impone un costo addizionale alla liquidità dato che costringe coloro che ne hanno bisogno a vendere titoli di stato consolidati a prezzi inferiori che in assenza di una ristrutturazione. Questo stresserebbe ulteriormente un già sofferente mercato del credito con ripercussioni su investimenti e possibilità di crescita. Anche per i privati gli effetti sarebbero negativi: per evitare i costi addizionali della liquidità, i consumi potrebbero subire una ulteriore riduzione che si aggiungerebbe al calo del reddito generato dalla crisi. Anche l’impatto sulla crescita potrebbe essere negativo e, soprattutto, duraturo: quando la liquidità diventa “preziosa”, risulta più rischioso investire in progetti di lungo periodo anche se questi sarebbero potenzialmente più profittevoli e innovativi perché in grado di spostare avanti il paradigma produttivo creando sviluppo. In altre parole, la soluzione drastica di ripudiare parte del debito potrebbe dare quel colpo di coda necessario a rimettersi sulla strada della crescita mentre una soluzione meno traumatica corre il rischio di allungare al pari delle maturity anche l’agonia rimandando la ripresa della crescita economica nel paese. Premesso che il costo di entrambe le soluzioni sarà elevato, tutto si gioca sulle dimensioni della ristrutturazione e del ripudio del debito e, forse ancora di più, su quanto rapidamente il paese sarà in grado di riguadagnare credibilità e reputazione.

Il secondo dubbio riguarda gli effetti di una ristrutturazione del debito che, pur chiamata consolidamento, è di fatto un default all’interno di un’unione monetaria. Nel 1926, l’Italia fascista poteva contare sulla lira e una banca centrale libera di stampare moneta. Oggi, invece, siamo all’interno dell’Euro con una banca centrale sovra-nazionale. Il precedente storico più simile risale al 1841 quando 8 degli allora nascenti Stati Uniti d’America e il libero Territorio della Florida fecero default: i rendimenti salirono subito al 12% per raggiungere il 30% l’anno seguente. Gli storici hanno stimato che gli Stati Uniti tornarono ad emettere titoli sul mercato dopo un periodo relativamente breve, ma dovettero sostenere uno spread di oltre un punto percentuale rispetto agli equivalenti titoli canadesi per tutto il resto del secolo. Non esiste quindi una vera e propria “dimenticanza storica” da parte dei mercati: quando l’investitore torna ad acquistare nuove emissioni dopo un default sul debito, soddisfa il suo appetito per il rischio chiudendo un occhio sulle quantità ma resta ben vigile con l’altro sul prezzo domandando spread più elevati sui tassi di interesse. L’evidente parallelismo con la situazione attuale pone il problema del costo del finanziamento del debito futuro. Cosa succederà dopo il periodo di consolidamento? Se il “grado di dimenticanza” dei mercati non è tanto basso, c’è un problema dei costi futuri, nel lungo periodo, sia per il paese che ha ristrutturato, sia per gli altri membri dell’unione monetaria. Negli Stati Uniti del XIX secolo, questi costi erano sostenibili perché il paese cresceva rapidamente e era disposto ad accettare aumenti di imposizione fiscale in nome di più infrastrutture e servizi pubblici. Negli ultimi decenni, l’Europa è cresciuta a tassi modesti e i suoi cittadini sono riluttanti ad aumenti di imposte. Viene da chiedersi se con l’allungamento della maturity del debito, i tassi di interesse siano non solo finanziariamente sostenibili, ma consentano anche tassi di crescita apprezzabili anche, e soprattutto, oltre il periodo del consolidamento.

Il terzo dubbio riguarda il rigore e la reputazione. L’Italia ha un debito pubblico troppo elevato perché spende molto, incassa relativamente poco e fa entrambi in modo iniquo. Gli interventi severi imposti dai mercati finanziari, le pressioni degli altri paesi membri dell’Unione Europea, e le richieste della Banca Centrale Europea spingono ad agire rapidamente e con soluzioni durature. Il rigore si trasforma in reputazione e questa in potere contrattuale in ambito europeo consolidando il percorso verso l’unione politica, tacito obiettivo della Comunità Europea. Con una ristrutturazione del debito, gli effetti sarebbero diametralmente opposti: la Germania diventerebbe sempre più scettica nei confronti di paesi che ristrutturano il debito e ciò potrebbe spingerla a lasciare l’Euro per un’area monetaria circoscritta ai soli paesi virtuosi. Molti governi hanno creduto di guadagnare facilmente reputazione senza pagare il prezzo del rigore entrando nell’Euro: la crisi del debito è il banco di prova su cui i mercati finanziari stanno valutando le reali intenzioni dei paesi e, di conseguenza, la tenuta della moneta unica. Una ristrutturazione del debito, quindi, non danneggerebbe solo il paese che la intraprende ma anche l’intera Unione Europea. La questione è politica: quanti sacrifici sono disposti a fare i singoli paesi membri per un’Europa unita? In ambito nazionale, il problema della reputazione è ancora più evidente. Nel 1926, Mussolini era credibile perché era il leader di un regime autoritario e voleva abbattere quel debito accumulato durante la prima guerra mondiale che altri prima di lui non erano stati in grado di aggredire. Come leader di un regime, il suo orizzonte temporale era di lungo periodo, mentre come soggetto politico “nuovo”, era un elemento di forte rottura col passato Oggi le legislature hanno un orizzonte temporale che spesso non supera i 5 anni del mandato e una ristrutturazione andrebbe a chiedere agli stessi governi finora incapaci di contenere il debito di essere rigorosi per 5 o 10 anni. Piuttosto che una vera politica di rigore, i mercati potrebbero sospettare che il consolidamento sia la prima di una serie di misure volte a diluire in maniera forzosa l’onere del debito. In questo scenario, gli effetti sarebbero perversi.

In conclusione, allungare la maturity è una soluzione certamente percorribile per abbattere il debito sovrano anche se restano alcuni dubbi sul costo effettivo e, soprattutto, l’effetto nel medio-lungo termine. Gran parte del risultato dipende dalle dimensione e dalle modalità. Non dover contare su alcun tipo di cooperazione tra stati è il principale vantaggio della proposta ma costituisce anche il suo “limite” maggiore: di fronte a tale minaccia, gli stati più intransigenti potrebbero preferire un’indesiderata (ma pur sempre più conveniente) collaborazione e quindi di fatto evitare la ristrutturazione stessa che da reale possibilità resterebbe solo una potenziale minaccia.

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