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FOCUS BNL – La geografia dell’industria manifatturiera sta cambiando: ecco come

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In Italia la produzione manifatturiera continua ad attraversare un periodo difficile: ad aprile l’indice corretto per i giorni lavorati ha registrato una flessione del 4,2% su base annua; si tratta della ventesima variazione negativa consecutiva. Il calo è maturato in quasi tutti i settori, ad eccezione che nella farmaceutica, elettronica e apparecchiature elettriche. Il dato di aprile non fa che confermare un periodo di lunga crisi attraversata dal settore, che dall’avvio della scorsa recessione non ha mai intrapreso un vero sentiero di ripresa. Rispetto ad aprile 2008 il complesso della produzione è sceso del 26,6%, cali maggiori si sono registrati nei mezzi di trasporto (-38,9%), nelle apparecchiature elettriche (-37,5%), nella produzione di minerali non metalliferi (-34,6%) e in quella di metalli (-34,1%).

Una flessione più contenuta si è osservata nell’alimentare (-7,2%), anche se in gran parte è maturata negli ultimi mesi; la farmaceutica, unico settore in controtendenza, registra livelli produttivi del 2,1% superiori a quelli dei primi mesi del 2008. La profondità della fase recessiva nell’intero comparto è testimoniata anche dal numero di mesi consecutivi di variazione (annuale) negativa: 20 per l’intero comparto, per i mezzi di trasporto e i minerali non metalliferi; 19 per i metalli e le altre industrie; 14 nel caso del coke e prodotti petroliferi raffinati. Negli altri settori la serie degli ultimi due anni risulta interrotta da almeno un mese con il segno positivo (o da variazione nulla), ma nel complesso è netta la prevalenza dei segni negativi.

La situazione del settore in Italia rientra comunque in un quadro europeo piuttosto difficile. Posto pari a 100 il valore dell’indice della produzione manifatturiera destagionalizzato di aprile 2008, questo, nel corrispondente mese del 2013, risultava pari a 89,3 per il complesso dei paesi della Ue-27 e a 87,7 per la sola area euro. In quest’ultimo gruppo di paesi i valori più bassi si registrano in Grecia (dove i livelli produttivi sono fermi a 69,4) in Spagna (72,1) e in Italia (74,2). Leggermente migliore risulta la posizione della Francia (83,6 un valore peraltro in crescita rispetto ai mesi precedenti) e in Germania, dove l’attività del settore manifatturiero risulta solo del 2,3% inferiore ai livelli pre crisi. Al di fuori dell’area euro l’andamento risulta invece più variegato e in generale molto buono per i paesi dell’Europa dell’Est, in particolare per la Polonia, dove la produzione manifatturiera risulta del 15% circa superiore ai livelli di inizio 2008, e soprattutto per la Romania, che già ad ottobre 2010 aveva completamente recuperato i livelli pre crisi e oggi registra livelli produttivi del 23% superiori a quelli precedenti la grande recessione.

Il protrarsi del periodo di difficoltà nel settore manifatturiero e più in generale nell’industria determina un graduale impoverimento delle competenze e delle strutture produttive che portano a loro volta a una riduzione del potenziale produttivo. La stima di una tale perdita non è agevole poiché si tratta di un fenomeno non direttamente osservabile. Nell’analisi congiunturale è possibile ricavarlo dal grado di utilizzo degli impianti, supponendo che quest’ultimo rispecchi il rapporto tra la produzione effettiva e il prodotto potenziale.

La misura così ottenuta non è perfetta, ma consente di avere indicazioni di tendenza in periodi lunghi, come quello che sta caratterizzando la fase attuale. Una recente indagine mostra come le due recessioni abbiano intaccato parte della capacità produttiva in molti paesi europei. In Italia la stima è di una perdita del 15% circa tra il picco pre crisi e il IV trimestre del 2012. Per la Spagna la perdita è anche maggiore (17,4%), mentre per la Francia si stima un -10,5%. Continua a fare eccezione la Germania, dove si è registrato un aumento del potenziale manifatturiero del 2,2%, sebbene questo risulti distribuito in modo molto disomogeneo nei vari settori. Nel nostro paese alla flessione hanno contribuito tutti i settori ad eccezione delle bevande, nelle quali anzi si osserva un lieve aumento. I cali maggiori avrebbero riguardato gli autoveicoli e rimorchi, il legno, il tessile e i minerali non metalliferi.

Anche la farmaceutica si stima abbia perso circa il 6% della capacità produttiva. La situazione francese è simile a quella italiana: anche in questo caso tutti i settori registrano perdite del potenziale produttivo (ad eccezione della chimica), e in particolare il tessile abbigliamento, gli autoveicoli e il coke e prodotti petroliferi raffinati. Il caso tedesco risulta diverso non solo perché, come si è detto, il potenziale durante gli anni di crisi in media è aumentato, ma soprattutto perché esso è il risultato di un aumento avvenuto solo in sei settori. Durante il periodo avrebbero infatti perso una porzione (talvolta consistente) di potenziale produttivo soprattutto il tessile-abbigliamento, i minerali non metalliferi, i mobili, la chimica e la carta; il dato medio è però positivo grazie consistente aumento del potenziale nel comparto degli autoveicoli seguito da uno, meno marcato, nell’alimentare, nella farmaceutica, e nella produzione di prodotti in metallo.

La perdita di potenziale produttivo non è necessariamente permanente. Essa tende a risalire con la ripresa dell’attività produttiva; il problema è relativo ai tempi. È stato ad esempio stimato che data la perdita di potenziale produttivo di fine 2012, supponendo che una fase di ripresa riporti subito l’impiego della capacità produttiva all’80% (storicamente considerato in Italia pieno utilizzo) e ipotizzando una crescita trimestrale della produzione simile a quella registrata nel periodo tra le due recessioni, occorrerebbero circa sei anni per ricostruire il potenziale del 2007. Si tratta di ipotesi piuttosto restrittive che fanno immaginare tempi molto più lunghi di recupero.

L’ipotesi che parte della perdita del potenziale interno possa rivelarsi permanete a causa di uno spostamento di parte dell’attività produttiva al di fuori dei confini nazionali nel caso della sola manifattura non sembra tuttavia confortato dai numeri. Tra il 2007 e il 2010 (unico periodo per cui è possibile il confronto) la percentuale delle imprese manifatturiere estere controllate da italiane sul totale delle imprese manifatturiere residenti in Italia è cresciuto (passando dall’1,3 all’1,5%), come pure il peso degli addetti all’estero (dal 16,3% al 18,7%); tuttavia in entrambi i casi l’aumento si deve a una diminuzione (in valore assoluto) di imprese e addetti superiore nel manifatturiero interno che in quello delle controllate estere che pure c’è stato. I dati a diposizione non permettono tuttavia di verificare se considerazioni analoghe valgano in termini di valore aggiunto realizzato.

A fine 2012 il valore aggiunto del manifatturiero italiano è arrivato a 217,9 miliardi di euro, un valore che seppure in flessione ci permette di consolidare la seconda posizione tra i paesi dell’area dell’euro. La nostra quota scende tuttavia al 16,2%, dal 17% dell’anno precedente e soprattutto dal 18,6% del 2000. Rispetto al totale Ue-27 la porzione di manifattura italiana arriva a rappresentare il 12,3% (13,1% era la quota del 2011). La Germania con 527,6 miliardi di euro di valore aggiunto si conferma primo paese produttore in Europa, con una quota di mercato che nell’area euro passa dal 38,6% al 39,1% nel 2012, e nella Ue-27 si attesta sul 29,9%, valore anch’esso in crescita. Per la Francia la quota del 13,5% nell’area euro rimane costante dall’anno precedente, mentre quella sul totale Ue rimane attestata al 10,3%.

Lo scenario ai vertici non subisce quindi cambiamenti rilevanti, anche se è evidente il graduale allontanamento della Germania dal resto dei paesi; movimenti maggiori, sebbene anche in questo caso lenti, si osservano nei paesi dell’Est europeo. La Polonia, ad esempio, con una quota di mercato del 3,4% nella Ue ha quasi raddoppiato il suo peso dal 2000, e oggi vanta una produzione superiore a quella dell’Austria (3%) e simile a quella dei Paesi Bassi (3,9%). Anche la Romania vede la sua quota in aumento, anche se i valori sono ancora contenuti: 1,6% nel 2011 (ultimo dato disponibile) dallo 0,5% del 2000; mentre la Repubblica ceca rimane stabile sull’1,9% dall’1% del 2000. Per i paesi dell’Europa dell’Est il settore rappresenta ancora oggi una porzione importante dell’economia e in generale superiore alla media europea (pari al 15,3 e al 15,8% rispettivamente); in Romania e Repubblica ceca il peso del manifatturiero è pari al 24,7% del totale economia (dato al 2011), in Ungheria al 23,2%, in Slovacchia al 22,1% mentre in Polonia si attesta intorno al 18%.

La situazione è più variegata tra le principali economie europee: in Germania il manifatturiero conta oggi per il 22,3% del valore aggiunto complessivo, una quota identica a quella di inizio anni Duemila che ha conosciuto una lieve flessione solo nel corso della crisi del 2009 (al 19,5%). In Francia il settore pesa oggi il 10% del valore aggiunto complessivo a causa di una graduale discesa che dal 2000 ha accumulato circa 5 punti percentuali, la Francia è quindi dietro il Regno Unito, paese in cui il graduale calo del peso del settore si è fermato al 10,7%. Per la Spagna (paese con un manifatturiero tradizionalmente meno pesante della media europea) la quota sul totale economia è scesa al 13,3%.

Fuori dall’Europa lo scenario della manifattura è dominato in modo sempre più netto dai Paesi emergenti: nella media 2011-2012 il primo paese al mondo per quota di mercato si conferma la Cina, con il 21,4%, un valore che nel giro di venti anni si è quintuplicato grazie a una crescita media annua del settore pari al 12,4%. Al secondo posto compaiono gli Stati Uniti (15,4%) che all’inizio degli anni Novanta con una quota del 21,8% producevano più di cinque volte il valore dei manufatti cinesi. In venti anni però il vantaggio si è gradualmente ridotto, fino a scomparire, a causa di una crescita che nel primo decennio non è andata oltre il 2,4% annuo, ridottosi allo 0,8% tra il 2000 e il 2012. Il paese non ha tuttavia rinunciato al rilancio del settore.

I dati indicano ad esempio un’accelerazione del processo di insourcing: tra il 2010 e i primi mesi del 2013 gli occupati nel manifatturiero sono aumentati di 521mila unità, fenomeno che non era avvenuto nella precedente fase di espansione economica (2003-2007). Pur essendo ancora presto per affermare che si tratti di una inversione di tendenza e che gli Stati Uniti riusciranno a recuperare lo svantaggio con la Cina, vi è comunque da sottolineare la presenza di una serie di fattori che giocano a favore di tale recupero: il sostegno al made in America dichiarato dall’amministrazione Obama, che ne ha fatto uno dei punti forti della campagna presidenziale 2012; la rivoluzione dello shale gas; l’aumento della produttività del lavoro negli Stati Uniti e del costo del lavoro in Cina.

La rivoluzione dello shale gas ha portato a una forte riduzione del prezzo del gas naturale nel paese (nei primi mesi del 2013 un milione di Btu di gas costava 3,7 dollari negli Stati Uniti e circa 10 in Cina), che ha notevolmente compresso i costi di produzione, soprattutto nei settori più energivori come la fabbricazione di prodotti in metallo. Inoltre, in alcuni settori del manifatturiero, soprattutto in quelli produttori di beni durevoli, tra il 2000 e il 2011 si è assistito a un notevole aumento della produttività media annua del lavoro: + 5,6% nell’elettronica, +4,3% nei mezzi di trasporto, +2,6% nella meccanica, +1,2% per i prodotti in metallo. L’aumento della produttività in Cina nello stesso periodo è risultato maggiore, ma non altrettanto quello di altri paesi mèta delle delocalizzazioni americane. Infine, sebbene ancora molto basso in termini assoluti, il costo del lavoro in Cina è cresciuto del 15% tra il 2011 e i primi mesi del 2013; in tal modo il rapporto tra il salario medio americano nel manifatturiero e quello cinese è salito a uno a sette, da uno a diciannove nel 2006.

Dopo Cina e Stati Uniti è il Giappone a detenere la quota più elevata di produzione manifatturiera al mondo: 9,6% (in calo di quasi dieci punti percentuali dall’inizio degli anni Novanta), mentre la Germania al quarto posto (con il 6,1%) ne perde nello stesso periodo quasi tre. L’Italia nella media 2011-2012 mantiene la settima posizione con il 3,1%, perdendo 2,2 punti percentuali in venti anni in virtù di una crescita media annua pari al -0,7%. In generale, tra i primi venti produttori al mondo la quota dei BRIC sale al 29,9% dal 7,6% di venti anni prima; in assenza di una valide politiche di sostegno al comparto da parte dei paesi avanzati, che li mettano in grado di recuperare terreno nei confronti dei Bric, con i tassi di crescita degli ultimi venti anni Cina India, Brasile e Russia arriveranno a produrre entro il 2040 circa l’80% del valore dei prodotti manufatti al mondo.

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