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Draghi nel motore dell’economia italiana, ecco cosa succederà

FIRSTonline - Lorenzo Gennari

I dati dell’ultimo quarto del 2020 confermano le previsioni, con gli Stati Uniti in crescita e l’Europa (e specialmente l’Italia) in decrescita. Nel corso del trimestre, si diceva il mese scorso, la congiuntura è peggiorata, il che poneva un’ipoteca per questo primo quarto del 2021.

La pandemia andava accelerando in fine d’anno e le restrizioni tornavano in campo, con più bastoni nelle ruote dell’economia. Da questo punto di vista, i dati dell’ultimo mese sono meno negativi. A parte alcune recrudescenze, i contagi, contrastati dalle restrizioni, rallentano nella media mondiale (e più rapidamente in America che in Europa), mentre le indagini sulla fiducia – sia per le famiglie che per le imprese – mostrano una sostanziale tenuta.

I prossimi mesi saranno difficili, specie in Italia, dove la sorpresa potrebbe essere l’effetto Draghi, che aiuterebbe molto ad accelerare il recupero della Penisola. Mutatis mutandis, torna in mente un fortunato slogan di una pubblicità di Carosello: metti un tigre nel motore, che accompagnò dal 1956 in poi gli anni ruggenti del miracolo economico. Ci vorrebbe, oggi sì, un altro vero miracolo. Non mettiamo limiti alla Divina Provvidenza. «He is in a mission for God», avrebbe detto, riferito al Grande Mario, John Belushi.

D’altra parte ha del miracoloso la velocità con cui si è approntato il vaccino (ben più d’uno in verità) e si sta procedendo all’inoculazione dell’intera popolazione mondiale. Così, il giudizio espresso nelle ultime Lancette («2021, l’odissea del virus verso il lieto fine», titolavamo) rimane valido, grazie alle vaccinazioni che procedono inesorabili in tutto il mondo, seppure confuse da polemiche incidenti di percorso.

Le due più grandi economie del pianeta – Cina e Stati Uniti – sono state toccate dal Covid-19 in modi molto diversi: il virus è stato portato rapidamente sotto controllo nel Celeste Impero, mentre in America ha infettato quasi una persona su 10 e il numero dei morti supererà questo mese il mezzo milione. Ma, paradossalmente, gli Usa sono, fra i grandi Paesi, uno di quelli dove l’economia ha reagito meglio. Grazie all’imponente ‘pronto soccorso’ (passato, presente e futuro) delle politiche monetarie e di bilancio, e anche grazie alla naturale resilienza del sistema economico che, in questo come in altri casi del passato, mostra una reattività a “strali e dardi della sorte avversa” che altri Paesi invidiano. Guardando avanti, le due locomotive – Usa e Cina – garantiscono il traino robusto di fondo dell’economia mondiale.

Il mese scorso avevamo notato come fra le ‘lezioni economiche’ della pandemia vi sia stata una benevola accettazione – teorica e pratica – di deficit e debiti pubblici per disinfettare le conseguenze economiche del virus, e una rivisitazione dei ruoli rispettivi delle politiche monetarie e di bilancio. Un’altra lezione si può desumere da un interessante studio del Peterson Institute of International economics (Why some experts got pandemic readiness wrong, di Cullen S. Hendrix) che guarda a un rapporto uscito nel 2019 (quindi prima del virus): The Global Health Security Index analizzava (profeticamente, col senno di poi) quali Paesi fossero meglio posizionati in caso di pandemia. Ebbene, non c’è stata nessuna correlazione fra quei posizionamenti e i risultati nel contrasto al SARS-CoV-19. Erano state ignorate le variabili della leadership politica e della coesione sociale, che influenza l’obbedienza alle restrizioni. Due variabili che non sono nuove, ma che non erano state sufficientemente sudiate. Aspettiamoci una selva di dotte analisi in materia.

L’inflazione riserva una conferma e una (mezza) sorpresa. La conferma sta nelle tensioni sui prezzi alla produzione e sulle materie prime: la (relativamente) buona salute dei grandi assorbitori (Cina e Usa), la (relativamente) buona performance dell’industria rispetto ai servizi e i maggiori costi di trasporto spiegano l’aumento delle quotazioni. La (mezza) sorpresa sta nell’impennata dei prezzi al consumo nell’Eurozona a gennaio. La spiegazione sembra essere in due una tantum: la rivisitazione dei pesi del paniere (se ne darà maggiore contezza più oltre) e l’aumento dell’Iva (cioè la cessazione di una riduzione) in Germania, dove l’impennata è stata di gran lunga maggiore che altrove. Ma mettiamo le cose in prospettiva: siamo sempre nella ‘zona di sconforto’ delle Banche centrali, cioè ben al di sotto del famoso 2 per cento.

I tassi a lunga (Bund e T-Bond a 10 anni) sentono il leggero miglioramento delle tendenze di fondo dell’economia e sono in altrettanto leggera risalita. In Italia i fattori politici contano quanto e più di quelli economici, e i rendimenti dei BTp sono in cauta controtendenza (spread sotto quota 100!), sia perché la ripresa è più fragile, sia perché l’effetto Draghi si è manifestato a febbraio e ha ricacciato in basso i tassi e lo spread.

Anche qui, come nel caso dell’inflazione, bisogna tuttavia mettere le cose in prospettiva. Siamo sempre vicini ai minimi storici e ci resteremo: le Banche centrali non hanno nessuna voglia di alzare i tassi-guida e, malgrado il miglioramento dell’attività economica, lo output gap rimane elevato.

Per i tassi reali, l’aumento dei nominali è stato recepito solo per i T-Bond, mentre Bund e BTp hanno registrato l’urto della maggiore inflazione a gennaio. Anche se la discesa dei tassi reali è benvenuta per l’economia, non è detto che si trasferisca sui tassi di mercato (famiglie e imprese) dato che, come detto sopra, l’impennata dei prezzi (sia nell’indice generale che nel core) è dovuta a fattori una tantum. Comunque, i tassi reali, con o senza i fattori una tantum, sono ben al di sotto del tasso di crescita del Pil, il che aiuta il cammino dell’economia in questo anno di ripresa.

Per i cambi, si è arrestata la discesa del dollaro, man mano che la robustezza dell’economia americana diventa più evidente. Il rientro delle quotazioni (dai recenti minimi di 1,23 contro euro a poco sopra 1,20) si manifestava anche prima del recente rimbalzo del differenziale dei tassi reali a lunga fra T-Bond e Bund (da zero a 100 punti base), peraltro innescato, come detto sopra, da fattori specifici all’inflazione di gennaio in Germania. E non è da escludere che la Bce, anche se afferma di non avere come bersaglio della politica monetaria il cambio dell’euro, lo abbia influenzato lateralmente, per interposta pressione negativa sui prezzi, manifestando la preoccupazione che la forza dell’euro (che comunque si è apprezzato del 10% circa contro dollaro rispetto a un anno fa) contribuisca alla deflazione (la quale è essa sì un bersaglio della politica monetaria). La moneta cinese ha anch’essa, nell’ultimo mese, perso qualcosa contro dollaro, ma mantiene, rispetto a un anno fa, un apprezzamento di circa l’8% contro il biglietto verde.

I mercati azionari continuano in un ottimismo che qualche mese fa pareva insano, ma adesso pare giustificato da un bicchiere pieno al 51%. Fortunatamente, offrono anche qualche sollazzo, come nella vicenda dei Wallstreetbets/Reddit/GameStop/argento… Sempre in chiave positiva, mette conto reiterare quanto già osservato il mese scorso: aggregando i modesti tassi reali e il buon andamento dei mercati azionari, sia il costo del capitale di debito che il costo del capitale di rischio disegnano condizioni finanziarie di grande supporto all’economia.

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Categories: Economia e Imprese