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Draghi, Marchionne e Renzi: innovare è una immensa fatica ma non mollate

La plateale ma per fortuna innocua contestazione a coriandoli che Josephine Witt, l’attivista del movimento Blockupy, ha riservato martedì scorso a Mario Draghi al grido di “Basta con la dittatura della Bce” è forse l’evento più emblematico di una settimana in cui lo scontro tra chi vuole innovare e chi vuole conservare lo status quo in Italia e in Europa ha investito non solo la finanza e l’economia ma anche l’industria e la politica.

SuperMario Draghi passerà sicuramente alla storia come il salvatore dell’euro (“Whatever it takes”)  e per ciò stesso dell’Europa, ma anche come il più potente motore di ripresa del Vecchio continente che il suo coraggioso Quantitative easing sta giorno dopo giorno mettendo in azione.  Il presidente della Bce meriterebbe un monumento per quanto ha fatto e per quel che sta facendo per tirare fuori l’Europa dalla più devastante crisi dell’ultimo secolo e, se oggi la svalutazione dell’euro, i tassi straordinariamente bassi e l’abbondanza di liquidità ridanno fiducia all’economia e accendono barlumi di ripresa, il merito è tutto suo e della straordinaria abilità diplomatica con cui è riuscito a dribblare, con la benevolenza di Angela Merkel, l’ostinato conservatorismo e il rigorismo a senso unico della Bundesbank.  Ma, al di là del folklore, il fatto che circolino movimenti di protesta che mistificano il ruolo della Bce e arrivano addirittura a identificarla in una forma di moderna dittatura la dice lunga sullo stato di confusione che circola in Europa e fa il paio con le ricette fallaci di chi, come i Grillo e i Salvini di turno, pensa di opporsi al cambiamento e alle riforme imboccando le illusorie scorciatoie che portano all’uscita dall’euro.

Ma quel che è successo a Draghi non è l’unico esempio di ottusa e cieca opposizione  a chi fa fatto dell’innovazione la propria bandiera. Basta pensare a quello che tra giovedì e venerdì è capitato al ceo di Fiat Chrsyler Automobiles (Fca), Sergio Marchionne. Come Draghi anche Marchionne ha compiuto un autentico miracolo che anche gli oppositori più incalliti dovrebbero, almeno in confessionale, ammettere. Dieci anni fa Marchionne sembrava un ufficiale liquidatore più che un manager: aveva assunto la guida di un gruppo come la Fiat che veniva considerato tecnicamente fallito e su cui nessuno era disposto a scommettere un soldo. In dieci anni Marchionne non solo ha salvato la Fiat da un fallimento sicuro ma, con l’azzeccata fusione con Chrysler,  ne ha fatto il settimo gruppo automobilistico del mondo. Questi sono fatti e non impressioni.

Nella prima assemblea di Fca ad Amsterdam Marchionne ha annunciato che per il 2015 il gruppo punta a vendere più di 5 milioni di auto e a realizzare più di un milione di utili.  Ma non è finita qui, perché giovedì sera, appena chiusa l’assemblea olandese, il ceo della Fca ha estratto dal cappello un bonus per i lavoratori degli stabilimenti italiani da un minimo 1.400 a un massimo di 5mila euro l’anno attraverso una rivoluzione dei salari che punta a legare le retribuzioni ai risultati aziendali e a mandare finalmente in pensione non la normale dialettica sindacale ma le contrapposizioni pregiudiziali tra capitale e lavoro.

In un altro Paese, come in effetti gli capita quando è negli States dove viene considerato una specie di eroe (in primo luogo dal presidente Obama), uno come Marchionne verrebbe portato in trionfo.  E non solo dagli azionisti a cui ha fatto guadagnare un sacco di soldi. Invece apriti cielo.  Per il massimalismo sindacale quella di Marchionne non è una benefica rivoluzione ma una specie di golpe. Un po’ come l’Italicum di Matteo Renzi lo è per i Civati, le Bindi, i Fassina e tutti i nanetti della politica italiana. Se non fosse patetico sarebbe quasi divertente assistere alla gara a chi la spara più grossa tra il segretario della Fiom, Maurizio Landini, e quello della Cgil, Susannna Camusso, due progressisti immaginari ma in realtà conservatori inossidabili che passeranno alla storia per non averne mai azzeccata una nemmeno per sbaglio. Ecco allora Landini sostenere che il progetto di Marchionne è “la morte del sindacato” perchè ne “cancella il ruolo riconducendolo a spettatore notarile” ed ecco la Camusso  fargli eco dicendo che “è si è costruita una grande notizia sul nulla perchè il progetto di Marchionne non è diverso dai tanti premi di risultato di tante aziende con la differenza che la Fca pensa a un sistema unilaterale e non basato sulla contrattazione”. Ma il sindacato è un mezzo o un fine? Dalle parole di Landini e Camusso sembra inequivocabilmente una realtà autoreferenziale e fine a se stessa e poco importa che in tasca ai lavoratori delle fabbriche italiane della Fca – proprio nelle ore in cui Whirpool annunciava a sorpresa 1.400 esuberi e la chiusura dello stabilimento di Caserta – stiano per arrivare quattrini sonanti.

Ma il vasto campionario dell’autolesionismo generale e del conservatorismo mal camuffato non si esibisce solo nel mondo della finanza o in quello dell’industria ma ha un suo palcoscenico speciale anche nella politica dove la farsa non tramonta mai.  E’ una curiosa coincidenza che tutto sia avvenuto nella stessa settimana ma non è un caso che il peggiorismo più ottuso abbia suonato le sue trombe proprio contro Mario Draghi, contro Sergio Marchionne e contro Matteo Renzi che in questo momento possono a ragione essere considerati gli alfieri della modernizzazione di cui l’economia e la politica hanno bisogno da vendere. In Italia come in Europa.

Non occorreva che lo dicesse un politico di razza come  l’ex presidente Giorgio Napolitano per capire che una legge elettorale come  l’Italicum è sì un compromesso, figlio degli equilibri politici di un Parlamento bizzarro, che non soddisfa pienamente  i desideri di nessuno, ma che è pur sempre meglio del Porcellum o del Consultellum e ancora di più del nulla e che solo il  rancore politico o l’istinto suicida possono indurre a distruggere quello che si è faticosamente costruito. Perché lo sanno anche i bambini che pretendere di emendare ancora una volta l’Italicum alla Camera  e rispedirlo al Senato, dove non c’è una maggioranza certa, non equivale a migliorarlo ma ad affossarlo. Con il bel risultato, di cui l’ostinata minoranza del Pd non pare rendersi conto, di colpire non tanto o non solo il premier ma il Paese intero e la sua credibilità internazionale.

Saggiamente, dopo aver vinto un altro round sull’Italicum nell’assemblea dei deputati del suo partito, Renzi ha lasciato aperta la porta del dialogo facendo trapelare la disponibilità a rivedere la riforma del Senato una volta messa in sicurezza la legge elettorale.  Poiché uno degli argomenti più capziosi dell’opposizione dem è stato sempre il deficit di democrazia derivante dal combinato disposto tra Italicum e Senato non elettivo ci si aspetterebbe un segnale di apprezzamento alle aperture del premier.  Ma il buon senso non è sempre il senso comune.

I casi di Mario Draghi, di Sergio Marchionne e di Matteo Renzi si completano a vicenda e potrebbero portare all’amara conclusione che  il malefico connubio tra populismo e autolesionismo è un ostacolo quasi insormontabile per il cambiamento. Ma i fatti consigliano una lettura più fiduciosa. Non scopriamo oggi che la modernizzazione non è una cena di gala ma una battaglia durissima che non si può mai vincere una volta per tutte. Ma allora non ci si può sorprendere che le resistenze di chi non vorrebbe cambiare mai nulla si facciano più aspre proprio quando c’è chi l’innovazione non la predica ma la fa.

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