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BLOG DI ALESSANDRO FUGNOLI (Kairos) – Dopo la Grecia, è ora di occuparci di più della Cina

Le città del mondo sono fatte di case, strade, piazze, fabbriche e parchi ma sono anche piene di spazi interstiziali, quelli che i francesi chiamano terreni vaghi perché la loro destinazione è indefinita. Lungo le ferrovie urbane, intorno alle fabbriche abbandonate, tra un casermone e l’altro della banlieue, queste aree amate dai topi e dalle vipere sono utilizzate generalmente e gioiosamente dai cittadini come discariche, luoghi di oscuri traffici o di insediamenti abusivi.

Non in Germania. I terreni vaghi sono meticolosamente censiti e messi a reddito. I comuni pubblicano ogni anno un elenco di questi spazi ed esaminano le numerose domande dei richiedenti, che sono cittadini singoli o, più spesso, ordinate associazioni di cittadini muniti di regolare tessera di riconoscimento. I richiedenti pagano un canone annuale e ovviamente, essendo in Germania, non sono liberi di fare in questi terreni quello che credono, ma devono ripartire lo spazio loro assegnato secondo precisi criteri.
Non più di un terzo (la grandezza media del lotto è di 300 metri quadrati) può essere adibito a orto, un terzo va tenuto a prato e un terzo deve avere una finalità ornamentale (piante o fiori). Data l’assenza di balconi nelle case tedesche, i cittadini pagano volentieri per potere sfogare il loro amore per fiori e piante e fare più bella la loro città.

Dei tedeschi si può dire tutto, ma non che siano dei neoliberisti selvaggi. Dalle gilde medievali alla fondazione dello stato assistenziale da parte di Bismarck fino all’assoggettamento della grande industria da parte del nazionalsocialismo la Germania si è caratterizzata sempre per uno stato dirigista e regolatore e per una fiorente e ordinatissima società civile in cui anche gli amici che si trovano al bar hanno un presidente, un segretario e un tesoriere. Anche la Bundesrepublik si è sempre ispirata all’ideologia ordoliberale dell’economia sociale di mercato, un ossimoro in cui l’accento è sempre caduto sul sociale più che sul mercato.

Suona dunque un po’ eccessivo che la distanza tra la Merkel e Tsipras sia spesso presentata e vissuta come uno scontro di civiltà tra il neoliberismo selvaggio da una parte e la dignità, la solidarietà e la speranza dall’altro. Suona ancora più eccessivo se si considera che l’ultimo piano Juncker (che Tsipras avrebbe probabilmente firmato se non avesse capito che la sua maggioranza non l’avrebbe sostenuto) vedeva alla fine una distanza tra le parti su tre soli punti riguardanti un ammontare complessivo di 600 milioni di euro (anche meno secondo alcune fonti). Il neoliberismo selvaggio e l’Europa dei banchieri chiedevano di togliere alle isole lo sconto sull’Iva, di abbassare le spese militari e di fare partire da subito la riforma delle pensioni. Il fronte della dignità e della speranza voleva mantenere l’Iva più bassa nelle isole, non tagliare le spese militari e fare partire la riforma delle pensioni da ottobre. I punti sull’Iva e sulle spese militari, per inciso, erano considerati irrinunciabili dai Greci Indipendenti di Kammenos, la formazione di destra alleata di Syriza.
Con il successo del referendum, Tsipras si è rafforzato non nei confronti dei creditori ma nei confronti del suo fronte interno. L’approvazione parlamentare dell’accordo con i creditori, molto problematica prima del referendum, è oggi garantita da una delega praticamente in bianco dell’intero sistema politico greco, che si è impegnato a ratificare qualsiasi accordo Tsipras porti a casa.

Il referendum a sorpresa ha però irrigidito, non indebolito, il fronte dei creditori. È in particolare in Germania che il sentimento antigreco si è rafforzato nei partiti, nella stampa e nell’opinione pubblica. Curiosamente, la forza politica più schierata in favore dell’espulsione della Grecia dall’euro è la Spd, che spera in questo modo di vellicare la pancia dell’elettorato e di mettere in difficoltà ancora maggiore la Merkel. Se Tsipras si farà consigliare da Juncker (come sembra già evidente dall’attenuazione delle richieste sul debito) e presenterà una proposta di riforme più seria (come è probabile) la decisione di spingere per un accordo o per la rottura definitiva spetterà a quel punto solo alla Merkel, che dovrà valutare entro domenica sera se fidarsi o meno di Tsipras. Avremo così la terza domenica di totale incertezza e il terzo lunedì da brivido. La nostra scommessa (su cui puntare qualche call, non certo il portafoglio) è che la Merkel decida per l’accordo. Questo le costerà molto del suo capitale politico ma non, probabilmente, la cancelleria.

Se così sarà, da lunedì cominceremo a preoccuparci più della Cina che della Grecia. Lo scoppio della bolla cinese è conseguenza di un rialzo gestito tecnicamente molto male dalle autorità cinesi. Il rialzo era però stato anche figlio delle migliori intenzioni. Avendo finalmente imboccato con decisione la strada delle riforme economiche (più consumi, meno investimenti e ridimensionamento delle conglomerate industriali semipubbliche), il governo aveva preparato il rialzo di borsa con i quattro obiettivi di privatizzare una parte significativa delle sue partecipazioni, compensare la classe media della minore crescita economica, fornirle un’alternativa all’investimento in immobili e incentivare attraverso i capital gain i consumi interni.
La bolla scoppiata è evidentemente un incidente serio in termini di immagine verso l’interno e verso l’estero. Deve anche bruciare parecchio, perché pochi paesi sono attenti alla loro immagine come la Cina.

Detto questo, ci sembra significativo che le prime reazioni (politica monetaria più espansiva, moralizzazione dei collocamenti con un limite nel rapporto tra prezzo e utili, conferma della strada delle riforme) stiano andando nella direzione giusta. Quanto all’effetto del crash sull’economia cinese e su quella globale, bisogna ricordare che la ricchezza della classe media cinese è molto più in immobili che in borsa e che le quotazioni attuali, ammesso che tengano, sono comunque più elevate di quelle di un anno fa. Quanto agli acquisti a margine, che incorrono ora in perdite gravi, non va dimenticato che sono controparte di vendite allo scoperto. Su queste vendite qualcuno deve avere guadagnato. In parte, certo, sono gli investitori stranieri, ma in parte sono probabilmente anche le banche cinesi.

Per quanto riguarda l’economia globale, non ricordiamo particolari entusiasmi e revisioni verso l’alto delle stime di crescita economica in Asia, Europa e America ai tempi del rialzo per cui non ci sembra giustificato ipotizzare adesso conseguenze devastanti del ribasso in corso. Nel medio periodo, ai fini della crescita globale, il fatto che la Cina si mantenga sulla strada delle riforme è molto più importante del crash di borsa.

Poiché le preoccupazioni non sono mai finite, se parleremo meno di Grecia finiremo col parlare di più anche di petrolio. La discesa in corso conferma la maggiore efficienza del mercato del greggio ai tempi dello shale oil rispetto al mercato monopolistico dei tempi dell’Opec. A 60 dollari si riattiva subito l’offerta, sotto i 50 la produzione viene subito ridotta.

Operativamente ci sembra razionale arrivare non troppo pesati alla scadenza di lunedì prossimo. Anche se un accordo ci sembra un po’ più probabile di una rottura, il ribasso nel caso infausto sarebbe molto maggiore del rialzo nel caso favorevole.

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