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Banca d’Italia, l’anomalia del suo assetto proprietario va risolta: come già suggeriva Cuccia

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Lo scorso 16 aprile, insieme con Alberto Quadrio Curzio, ho proposto dalle colonne de Il Sole 24Ore, un progetto (Bankoro) volto a valorizzare, senza cederle, le nostre riserve auree; esso consentirebbe anche di promuovere investimenti per la ripresa economica. Il progetto risolve la questione dell’assetto proprietario della Banca d’Italia che una legge del 2005 stabilisce debba essere posseduta dallo Stato o altri enti pubblici secondo modalità attuative da specificare in apposito regolamento; avrebbe dovuto essere emanato in modo da consentire il trasferimento delle quote entro tre anni (cioè entro il dicembre 2008), ma ciò non è avvenuto. Nel dibattito, alcuni si sono spinti addirittura a ritenere illegale che via Nazionale cada sotto totale controllo pubblico auspicando che quella disposizione di legge venga abrogata. 

Lo stato attuale dell’istituto, oltre che irregolare, è impresentabile configurando un vigilante posseduto dai suoi vigilati. Per quanto l’indipendenza della banca e l’autonomia della sua gestione siano garantite dal sistema europeo delle banche centrali, il ruolo dei vigilati nell’amministrazione è tutt’altro che marginale. La loro assemblea nomina i 13 membri del Consiglio Superiore i quali tra l’altro danno al Consiglio dei ministri il parere su nomina, rinnovo e revoca del Governatore. Mentre personalmente sono certo della neutralità di comportamento di Bankitalia, ritengo nondimeno che non siano da sottovalutare gli interrogativi che potrebbero essere sollevati ad arte su un diverso presunto trattamento dei vari soggetti sottoposti ad ispezione (“la moglie di Cesare deve essere al di sopra di ogni sospetto”).

Le origini della nostra banca centrale risalgono al 1849 quando Camillo Benso di Cavour volle che i due istituti di emissione sabaudi, Genova e Torino, fossero uniti col titolo di Banca Nazionale. Fino alla crisi del ’29 le azioni della Banca d’Italia (così denominata dal 1893) erano i principali valori trattati nelle borse di Genova, prima, e Milano, poi (v. il mio scritto in Consob, Dall’Unità ai giorni nostri: 150 anni di borsa in Italia; 2011; www.consob.it). Ma nel 1936 si cambiò regime e da società anonima di azionisti privati la Banca d’Italia divenne istituto di diritto pubblico. In tale riforma contò il fatto che la raccolta del risparmio e l’esercizio del credito sono funzioni di interesse pubblico e che la banca centrale deve essere al di fuori di ogni speculazione privata. 

La nuova legge dispose che gli azionisti privati fossero rimborsati al valore di libro (1.300 lire per azione) e che il capitale versato per 300 milioni fosse nuovamente conferito da enti per la maggior parte controllati dal Tesoro (casse di risparmio, istituti e banche di diritto pubblico, istituti di previdenza e di assicurazione). Questa formula – commentò Enrico Cuccia nel febbraio 1997 in uno scritto sull’inserimento delle banche nel sistema europeo, pubblicato dall’Istituto Ugo La Malfa – “poteva ritenersi valida in un regime impegnato a mantenere la presenza della mano pubblica nel sistema bancario […] si metteva uno schermo tra la Banca e il Governo, che in un regime totalitario era uno schermo di carta velina e in un regime democratico non è conciliabile né con l’esigenza di privatizzare il sistema bancario, né con il criterio (corrente negli altri Paesi della Comunità) che vuole l’istituto di emissione sotto il controllo diretto del Tesoro” (il documento è nel sito dell’Archivio Storico Mediobanca). 

Le parole di Cuccia non furono tenute in conto quando i governi degli anni successivi procedettero a privatizzare le banche pubbliche, sicché ancora oggi la larghissima maggioranza del capitale della Banca d’Italia (94,33%, v. Annuario R&S 2013, p. 1034) resta in mani private con l’aggravante che si tratta di soggetti da essa stessa vigilati, ovvero banche e assicurazioni. I primi tre (Intesa Sanpaolo, Unicredit e Generali) detengono da soli il 71% delle quote. 

Un assetto privato caratterizza l’origine storica di molte banche centrali; ma quali sono oggi le forme prevalenti che configurano la best practice? La regola, come già diceva Enrico Cuccia 15 anni fa, è che siano possedute dallo Stato. Difatti, delle altre 16 banche centrali dell’eurozona, 14 ne sono possedute al 100%. Si tratta in massima parte di enti di diritto pubblico; tra le più importanti, hanno tale natura la Banque de France, la Deutsche Bundesbank e il Banco de España. Vi sono due casi atipici. Il primo riguarda la Banque Nationale de Belgique che è una società anonima quotata in borsa; la partecipazione statale è comunque maggioritaria (50%) mentre il restante 50% è flottante diffuso al pubblico. La seconda eccezione riguarda la Banca centrale greca, riorganizzata di recente. L’istituto è posseduto al 100% dalla National Bank of Greece la quale è una società quotata, a sua volta partecipata all’84% da un fondo statale (HFSF Hellenic Financial Stability Fund).

Al di fuori dell’eurozona, la Bank of England appartiene totalmente allo Stato dopo la nazionalizzazione avvenuta nel 1946. Nel 1931, abbandonato il gold standard, il Tesoro le aveva sottratto tutto l’oro e le riserve valutarie. In Giappone, la banca centrale nacque nel 1882 sul modello belga e mantiene un assetto proprietario duale: lo Stato vi detiene una quota del 55% e il resto è diffuso al pubblico; anche la Bank of Japan è quotata in borsa, ma con scarso successo visto che dal 1999 ad oggi ha perduto la metà del suo valore sia pur con ampie escursioni in più e in meno. Le azioni dell’altra quotata, la Banque Nationale de Belgique, nello stesso periodo hanno invece assicurato un rendimento medio annuo del 5,7%. Totalmente pubbliche sono le banche centrali canadese, australiana, indiana e brasiliana e quelle dei paesi ex comunisti. Una curiosità: la banca centrale di San Marino è posseduta al 70% dallo Stato e per il restante 30% da quattro banche locali (anche qui, più in piccolo, si ripropone il vigilante partecipato dai vigilati, ma il primo controlla da solo tutte le assemblee).

Occorre infine ricordare il sistema americano della riserva federale, guidato dal Federal Reserve Board (FRB) dove siedono sette governatori nominati dal Presidente degli Stati Uniti con l’approvazione del Senato (tra loro, con la stessa procedura vengono designati Presidente e Vice-Presidente). Il sistema opera attraverso 12 banche della riserva federale il cui capitale “deve” essere sottoscritto dagli istituti che vogliono esercitare l’attività bancaria. Si tratta quindi di un obbligo generale che comporta un investimento pari al 6% del proprio capitale (quota ad oggi richiamata solo per metà) e si concretizza in azioni aventi diritto a un dividendo del 6%, ma che non possono essere negoziate. L’efficacia di questo sistema, che il prossimo 23 dicembre festeggerà il suo centenario, non è delle migliori se si pensa che non è stato in grado di prevenire le numerose crisi finanziarie esplose nel corso del tempo, da ultimo quella che ancora ci tormenta. 

Ogni banca della riserva federale viene gestita sotto la supervisione di un Consiglio di amministrazione che si compone di nove membri nominati per due terzi dagli azionisti (metà in loro rappresentanza e metà quali espressioni dei settori non bancari) e per un terzo dal FRB in ideale rappresentanza del pubblico; il FRB designa anche il Presidente. Se è vero che questi ultimi vantano una certa indipendenza (ad esempio nella Federal Reserve Bank di New York figura il presidente del Metropolitan Museum of Art che è pure Presidente del Consiglio di amministrazione della banca), la presenza di esponenti delle banche commerciali e di grandi società resta foriera di conflitti d’interesse.

In sintesi, la best practice prevede che le banche centrali siano possedute interamente dallo Stato. Le eccezioni sono marginali e dovute a ragioni storiche. L’unico caso rilevante di ente totalmente privato di cui io abbia un ricordo per l’ultimo dopoguerra riguarda l’Iran dove le funzioni di emissione furono affidate alla potente banca privata Melli fino al 1960 quando venne sostituita da un ente pubblico (v. il mio saggio su Iranian Studies, vol. 46, n.4, 2013, p.607).

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