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Banca d’Italia, attaccano la sua indipendenza perché è scomoda

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Nel corso di un servizio del Tg3 della sera di sabato 9 febbraio Luigi Di Maio ha dichiarato il suo “chi se ne frega” della Ue nel caso in cui si dovesse opporre al risarcimento degli azionisti supposti truffati delle banche venete. Dopo il “chi se ne frega dello spread” di Salvini, Di Maio non ha voluto essere da meno.  

Nel giorno in cui lo spread toccava i 290 punti base le dichiarazioni del duo Salvini-Di Maio a favore dell’azzeramento di Banca d’Italia hanno per certo contribuito, al pari di un fuoco amico, ad accrescere la sfiducia e il disdoro della opinione internazionale nei confronti del governo giallo verde. Fiducia prima inutilmente invocata dal Ministro Tria. 

Era facile prevedere che Luigi Di Maio avrebbe colto l’occasione della campagna elettorale europea per sostenere il suo obiettivo di sempre: come far tacere la Banca d’Italia per i suoi impietosi giudizi sulla politica economica del governo, invocando una non meglio precisata e argomentata necessità di discontinuità rispetto al passato.  

Alcuni episodi del passato, tra i tanti tra cui scegliere seppure certamente assenti nel deserto culturale dei due vicepresidenti, stanno a testimoniare l’indipendenza della Banca d’Italia dalla politica. Indipendenza di giudizio ritenuta intollerabile dal governo giallo verde, alla disperata ricerca del consenso minuto per minuto. La discontinuità perseguita non è nei comportamenti della vigilanza, ma quella più fastidiosa rispetto all’indipendenza di giudizio sui fatti del governo   

L’attacco a Paolo Baffi e a Mario Sarcinelli è troppo noto per non essere ricordato: si opponevano al finanziamento di un potente gruppo economico sponsorizzato da un altrettanto potente uomo di governo. Ma si può ricordare il caso della Banca d’Italia, “vigilante e prudente” secondo le parole di Bonaldo Stringer, quando impedì nel 1918, malgrado l’opinione contraria del governo di allora, il tentativo di scalata “ostile” nei confronti della Banca commerciale italiana e del Credito italiano da parte di industriali siderurgici genovesi (i fratelli Perrone che controllavano il gruppo Ansaldo) e torinesi (Agnelli e Gualino).  

Più tardi, con riferimento alla Edison, nel 1951 il Governatore Donato Menichella manifestò ad un rappresentante del governo in carica il proprio rifiuto al raddoppio delle obbligazioni I.C.I.P.U. emesse a favore della Edison, motivando il rifiuto eccependo sul fatto che la Edison non voleva fare un’emissione di capitale poiché le azioni erano sotto la pari. Fu così che Menichella invitò gli amministratori della Edison a trovare le vie per collocare l’aumento di capitale e a non domandare alla Banca d’Italia di toglierli dall’imbarazzo dovuto al fatto che il più grande gruppo italiano abbia “chiesto ai propri azionisti solo pochi soldi e non abbia ottenuto un soldo di finanziamento dall’estero”.

Ancora più tardi, nel 1980, in vigenza della prassi delle svalutazioni competitive funzionale alla guerra dei prezzi per le imprese italiane esportatrici, furono sollecitati il governo e la Banca d’Italia perché procedessero alla svalutazione della lira. Ricorderà più tardi l’allora Governatore Carlo Azeglio Ciampi che quando Gianni Agnelli gli chiese, con fare molto diretto, di svalutare la lira, gli venne opposto l’attrito del cambio a quella che era diventata una deriva pericolosa. La Banca d’Italia non voleva più garantire agli industriali la solita comprensione paternalistica a protezione anche della loro incapacità. 

Sono esempi, tra i tanti, che hanno concorso a formare nell’opinione italiana e internazionale il convincimento dell’indipendenza di giudizio della Banca d’Italia. Oggi, con la scusa della supposta vigilanza mancata nel caso delle banche venete, il duo Salvini Di Maio vorrebbe azzerare una istituzione scomoda per la loro sconsiderata politica economica. Hanno l’obiettivo di poter dire al loro popolo, screditando le istituzioni indipendenti, “e chi se ne frega anche della Banca d’Italia”.

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