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Arca: fondi pensione indispensabili dopo riforma Fornero, ma l’Italia è fanalino di coda in Europa

L’ipotetico signor Mario Rossi che il 26 settembre del 1984, giorno del debutto dei fondi Arca, decise di destinare una parte dei suoi risparmi a quella novità finanziaria, può dirsi soddisfatto: i 10mila mila euro (ovvero il corrispondente in lire) investiti quel giorno, valgono oggi 79.524 se “parcheggiati” in Arca BB, più o meno lo stesso, 79.216 euro, in Arca RR. Certo, in trent’anni tante cose sono cambiate: i buoni del Tesoro dell’epoca avevano rendimenti a due cifre, il carovita galoppava, il valore del mattone sembrava destinato a crescere all’infinito. Ma il risultato dei fondi di Arca, uno dei pionieri del sistema, è comunque di tutto rispetto: i 10 mila euro di allora, rivalutati con l’inflazione, equivalgono solo a 26.875 di oggi, poco più di un terzo di quanto vale oggi il risparmio del signor Rossi. Nello stesso periodo, poi, i primi 10 mila euro accantonati nel Tfr del signor Rossi, allora un giovane impiegato, sono cresciuti fino a 32.627 euro, meno della metà dei suoi fondi. 

Il conto è stato presentato a Milano nel corso di “30 e lode”, il convegno-celebrazione indetto da Arca per i primi trent’anni di vita di uno dei pionieri del sistema del risparmio gestito italiano. Un’occasione per fare il punto su una delle poche industrie, quella del risparmio, che sembra godere di buona salute nel panorama depresso del Paese. Ma anche qui, al di là del traguardo straordinario dei 1.500 miliardi di euro amministrati dal sistema, emergono non poche rigidità che, nel tempo, possono condizionare in maniera decisiva il nostro futuro di risparmiatori, chiamati oggi a scelte impegnative. Vale per i singoli risparmiatori, chiamati oggi a destinare a risparmio un terzo del reddito per non essere domani dei pensionati poveri ma difendere una qualità della vita in linea con i tempi. 

Il calcolo è presto fatto: con il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo il rapporto tra pensione ed ultimo stipendio è passato da 0,8 a 0,55. Il che vuol dire che oggi il signor Rossi junior, figlio del fortunato risparmiatore anni Ottanta, deve calcolare che, disponendo di una ricchezza finanziaria pari a due volte lo stipendio annuale, ha bisogno di un rendimento annuale sulla ricchezza pari 7% (il 5% in termini reali, al netto dell’inflazione che verrà) per mantenere il suo tenore di vita inalterato. Un obiettivo che implica un certo rischio, che può essere tenuto sotto controllo se una parte del risparmio viene diretta verso investimenti a lungo termine in infrastrutture, tipiche dei fondi pensione. 

Ma qui entra in gioco uno dei talloni d’Achille del Paese: nonostante la forte propensione al risparmio, mostra lacune imbarazzanti in materia di scelte a lungo termine. Se si guarda al peso percentuale dei fondi pensione sul Pil, ha sottolineato l’ad di Arca Sgr Ugo Loser, l’Italia è il fanalino di coda in Europa con una percentuale ben al di sotto del 10% contro il 160 dell’Olanda. Nei Paesi Ocse gli stessi fondi pensione valgono il 70% del sistema dei fondi comuni, in Italia non si supera il 17%. Non solo. In Paesi come l’Australia od il Canada i fondi sono sempre più impegnati in investimenti infrastrutturali, con grande beneficio per l’economia del Paese oltre che di ritorno a medio lungo termine per gli investitori. In Italia, al contrario, l’85% dell’asset allocation finisce in titoli di Stato o liquidità piuttosto che in asset esteri, scelta obbligata vista la mancanza di progetti in Italia o, non meno importante, la difficoltà a mettersi al passo con le nuove esigenze. 

Rispetto agli anni Ottanta, del resto, tante cose sono cambiate. E non sempre per il meglio. Fino a pochi anni fa, infatti, il Bel Paese era una mèta ambita per i fondi pensione americani e del nord Europa, i principali finanziatori di infrastrutture ed investimenti a medio termine. Oggi, però, non è più così, con ili risultato di uno stato di crisi profonda del private equity. L’Italia, è la diagnosi di Arca, deve far da sola, dando vita a fondi pensione in grado di gestire gli investimenti con la stessa competenza e gli stessi orizzonti temporali dei concorrenti. Per questo Arca, prima fra tutte le Sgr italiane ha deciso di creare una divisione specializzata per gli investimenti istituzionali “nella convinzione –  sottolinea Loser – che si tratti di una materia che richiede una specializzazione ad hoc” oltre ad una maggior presenza nella governance delle imprese. 

Insomma, è giusto festeggiare i fondi, che hanno dimostrato in questi anni trasparenza e sicurezza a prova di brutte sorprese. E’ necessario però andare avanti con lo stesso spirito e la stessa fiducia di trent’anni fa. Quel che manca non è la materia prima, cioè il risparmio. Ma la volontà di usarlo per finanziare il futuro, obiettivo che, per la verità, non appartiene alla filosofia del governo: l’aumento delle aliquote sui fondi così come la stessa “liberazione” del tfr rispondono alla necessità, meritoria ma di breve respiro, di dar fiato ai consumi. Se non si corregge la rotta si rischia di porre un’ipoteca pesante sulle strategie di vita di molti italiani, ancora in attesa della fantomatica busta arancione. 

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