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Tennis, quando Wimbledon era Wimbledon e Clerici chiese il riposo rompendo la tradizione

Era il giugno del 1953 ed un giovane tennista di Como, già due volte vincitore della Coppa de Galea (una sorta di coppa Davis under 23) decise di andare a cercare più esperienza che gloria sull’ erba di Wimbledon: le condizioni economiche gli consentivano di finanziarsi, visto che la sua famiglia era decisamente benestante. Il buon livello raggiunto nelle classifiche della federazione (più o meno numero 5 italiano) gli davano accesso al tabellone. Così il nostro amico riempì la sua Fiat Cinquecento (doveva essere una topolino o una giardinetta) di borse e racchette e attraversò la Manica per giungere, dopo un viaggio faticoso, nella mecca del tennis.
Il sorteggio per la compilazione del tabellone non gli fu particolarmente ostile. Il primo turno gli riservò così un avversario un po’ più forte, ma dal quale non sarebbe stato preso a pallate. Tutto da guadagnare e niente da perdere, come si dice in gergo. E così Gianni Clerici, il futuro “scriba” del tennis, si trovò ad affrontare il torneo più famoso del mondo da giocatore. Peraltro competitivo, almeno alla prima uscita.
E non fece certo una cattiva figura. Fu sconfitto, ma in quattro partite. Insomma un set lo portò a casa, e questo gli consentì di mettere a segno un record personale davvero particolare. Qui va fatto un piccolo passo indietro. Negli anni ’50 (e così sarà per tanto tempo, fino a dopo l’introduzione del tie break), nei grandi tornei internazionali, nei quali si giocavano tre set su cinque, vigeva la regola che dopo il terzo set i giocatori avessero diritto a 20 minuti di riposo. Così, nei casi nei quali si dovesse giocare il quarto set, i giocatori si ritiravano dopo la conclusione del terzo negli spogliatoi a prendere fiato. Era molto discusso tra i tennisti se, in quei venti minuti, convenisse fare una breve doccia, o se fosse meglio, per non perdere la concentrazione, limitarsi a cambiare la biancheria (allora la divisa bianca era di rigore non solo a Wimbledon) intrisa di sudori. La maggior parte della dottrina tennistica optava per questa seconda ipotesi.
A Wimbledon però vigeva la tradizione che questa norma del riposo non si osservasse. E siccome in Albione, talvolta anche le regole cedono il passo alla consuetudine, i giocatori evitavano di chiedere lo stop dopo il terzo set. Clerici però non la pensava in questo modo e così, dopo aver perso due set ed averne vinto uno, decise di chiedere l’applicazione del regolamento. E ottenne i suoi 20 minuti di riposo.
Probabilmente allora il futuro “scriba” non pensava che avrebbe passato buona parte della sua vita a descrivere, e quasi sempre a difendere, la tradizione del più bel e atipico torneo del mondo, più volte sottoposto ai cambiamenti imposti dalla modernità. E a chi scrive fa piacere immaginare che Clerici, nel 1953, quel riposo lo abbia chiesto per prolungare il più possibile la propria presenza nel tempio del tennis. Non sapeva allora il nostro scriba che quel tempio lo avrebbe continuato a frequentare anche da ottuagenario. Come si conviene ad un grande giornalista che è soprattutto affascinante scrittore. E non solo per noi appassionati.

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